Quaderni della Fondazione Professor Paolo Michele Erede a cura di Michele Marsonet
Quaderno N. 1 – 2008. “I Problemi della Società Multietnica”
Numero monografico dedicato agli elaborati vincitori della Prima Edizione del Premio Professor Paolo Michele Erede
Claudio Pestarino - I problemi della società multietnica.
Vincitore del Primo Premio
1. Introduzione
Uno dei fenomeni che maggiormente caratterizzano le società (occidentali) contemporanee è indubbiamente la massiccia immigrazione di soggetti provenienti per lo più dal c.d. Terzo Mondo e dunque afferenti ad etnie, culture e “razze” tendenzialmente non omologabili a quella che per semplicità possiamo genericamente definire euro-americana.
Ciò evidentemente pone una serie di problemi di varia natura (etica, giuridica, politica, ecc.) dato anche il tradizionalmente alto tasso di natalità delle popolazioni africane, asiatiche e latino-americane (questione su cui si tornerà in seguito): problemi indubbiamente complessi e complicati, ma che è opportuno se non necessario (cercare di) analizzare “a 360 gradi” e ad un livello di profondità sufficiente all’elaborazione di strategie adeguate al governo di un fenomeno ragionevolmente destinato ad ampliarsi ulteriormente nei prossimi anni e decenni: l’attualità e la cogenza di questo tema sono attestate anche dalla recente istituzione di cattedre universitarie specificatamente dedicate alla filosofia del dialogo interculturale o a problematiche affini.
Il presente breve saggio intende appunto presentare un sintetico panorama dell’ampio
ventaglio di questi problemi: con la fondamentale premessa che movimenti migratori di una certa consistenza hanno punteggiato pressoché l’intera storia umana: dunque, non solo non ci si trova affatto di fronte ad una novità assoluta, ma da tali esperienze del passato è anche possibile ricavare elementi utili ad affrontare le difficoltà odierne.
2. Qualche precisazione terminologica
Come poc’anzi accennato, le società occidentali sono avviate a divenire sempre più multietniche (e multivaloriali): prima di inoltrarsi nel merito della questione , però, ci sembra opportuno fare alcune precisazioni di carattere semantico.
Ci soccorre la penetrante analisi del concetto di ethnos proposta dall’antropologo C. Tullio-Altan, secondo cui gli elementi costituenti appunto un E. sono i segg.: la memoria storica (epos), il modo di convivere tramite norme e costituzioni (ethos), la lingua (logos), la sensazione di discendere da un gruppo ancestrale comune (genos) e il territorio (topos). Da queste cinque “radici” scaturirebbe il senso di identità etnica.
Il concetto di “identità” ne richiama altri (differenza, alterità e sim.), da tempo indagati non solo in ambito antropologico ma anche da altre scienze umane E dalla filosofia (come d’altronde avviene per altri termini a vario titolo coinvolti nel ns. tema: innanzitutto civiltà e cultura, due termini “cugini”, ma anche comunità, confini, ecc.). A questo punto evidentemente il discorso rischia di ampliarsi a dismisura, ma è opportuno quantomeno sottolineare la quantità e l’ampiezza filosofico/scientifica dei concetti in discussione: tutto ciò non mancherà di offrire riferimenti interessanti per il prosieguo di questo breve saggio.
Per quanto riguarda la multivalorialità caratterizzante (piaccia o non piaccia) le società occidentali contemporanee, sarà qui sufficiente ricordare che essa era stata colta con chiarezza già dal grande economista-filosofo-sociologo M. Weber nei primi anni del Ventesimo Secolo.
Un termine dal significato affine ma non identico a “multietnico” è “multiculturale”, spesso utilizzato al posto del primo: sulla base dell’omonima voce dell’Enciclopedia filosofica Bompiani, in riferimento al multiculturalismo possiamo quantomeno menzionarne i quattro modelli fondamentali, dalle caratteristiche principali abbastanza facilmente intuibili sulla base delle rispettive denominazioni:
1. temperato (neo-liberale);
2. radicale (neo-comunitarista);
3. critico;
4. neo-mercantilista.
Inoltre nella storia non mancano esempi di società multiculturali/multietniche: basti pensare all’Impero romano e, per venire ad un’epoca molto più recente, a quello austro-ungarico, senza dimenticare il fiorente e del tutto sommato tollerante regno arabo-islamico medievale (simboleggiato in un certo senso dall’eclettica figura di Averroè); gli Stati Uniti d’America stessi vengono spesso considerati un esempio (secondo alcuni studiosi quello meglio riuscito in assoluto) di società multiculturale/multietnica. Occorre peraltro aggiungere che naturalmente ognuna di queste entità politico-sociali possedeva (o tuttora possiede) anche una quantità di caratteristiche peculiari sufficiente a rendere abbastanza complicata l’estrapolazione di considerazioni di valenza davvero generale; persino il ben noto modello statunitense del “melting pot” sembra presentare oggi numerose crepe.
3. Scontro di civiltà ?
La prima questione di merito della quale è opportuno occuparsi ci sembra quella relativa allo “scontro di civiltà” che, secondo S. Huntington ed altri illustri analisti, sarebbe attualmente in corso tra mondo occidentale e mondo (integralista) islamico.
Sulla scia di altri studiosi (ad es. il sociologo A. Dal Lago e la filosofa M. Nussbaum), non meno autorevoli di quelli precedentemente evocati, la tesi dello scontro di civiltà ci sembra obiettivamente esagerata, parzialmente forzata e tendenzialmente fuorviante: non fosse altro perché essa, unendosi al tendenziale rifiuto delle etnie “altre”, mina alla radice la proposta alternativa dell’incontro/accettazione tra etnie differenti e la conseguente ricerca della migliore armonizzazione effettivamente possibile all’interno delle moderne società multietniche. Ma le perplessità si appuntano già sulla (presunta) monoliticità del concetto di “civiltà”: presunta perché appare difficile se non impossibile considerare (in questo caso) Occidente e Islam praticamente come due entità metafisiche, perfettamente e rigidamente definite, prive di dialettica interna e reciprocamente impermeabili. Ciò del resto accade per altri concetti collegati al tema in discussione: si pensi a “cultura” (non fosse altro perché oggi le culture vanno sempre più deterritorializzandosi”…), oppure a “identità” (che da tempo filosofia, antropologia, psicologia e sociologia ritengono concetto ben difficilmente suscettibile di “reductio ad unum”). Anche su questi aspetti si ritornerà nel prosieguo di questo breve saggio.
Le ricerche di autorevoli studiosi come C. Levi-Strauss, inoltre, hanno mostrato la totale infondatezza scientifica di ogni atteggiamento marcatamente etno/euro-centrico, che viceversa rappresenta un segnale abbastanza inequivocabile di un più o meno marcato (e inconscio) ego-centrismo e “la faccia uguale e contraria della medaglia” del ben noto “relativismo assoluto”; utili ammaestramenti a questo proposito possono venire da seri studi di Etnologia giuridica, condotti magari a partire dall’intramontabile Esprit des lois del barone di Montesquieu.
Tutto ciò naturalmente non significa in alcun modo una sottovalutazione della complessità e della gravità del problema in discussione (come risulterà evidente in seguito), bensì quantomeno avanzare forti dubbi riguardo all’inevitabilità dello scontro teorizzato da Huntington e dai suoi seguaci e delle notevoli conseguenze politico-militari ed economico-sociali che tendenzialmente ne deriverebbero.
4. Al cuore del problema
Tra demografia ed economia
Una volta (almeno potenzialmente) allontanato lo spettro dello scontro di civiltà, possiamo cercare di delineare quello che ci sembra il cuore del problema in discussione: a metà strada tra demografia ed economia.
La radice dei conflitti inter-etnici o, per essere più precisi, tra individui/gruppi appartenenti ad etnie differenti che si trovino a calpestare il medesimo suolo, ci sembra infatti legata soprattutto al combinato disposto di fattori di ordine economico e di fattori di ordine demografico: da una parte la dicotomia tra più e meno (o per nulla) abbienti, dall’altra la sovrabbondanza quantitativa delle popolazioni migranti in relazione alle risorse disponibili tanto nei Paesi d’origine quanto in quelli dove un dato individuo/gruppo si trasferisce, entrando così “in concorrenza” con la popolazione locale. Detto in termini inevitabilmente poco rigorosi ma molto concreti, da una parte gli immigrati puntano ad accrescere le dimensioni (generalmente modeste) della “fetta di torta” che il caso/il destino ha loro originariamente riservato, e dall’altra la popolazione indigena teme di dover drasticamente dividere la propria fetta della torta (generalmente più sostanziosa) con i nuovi e (come poc’anzi accennato) solitamente molto prolifici arrivati: due atteggiamenti entrambi umanamente comprensibili oltre che legittimi, ma ovviamente non facilmente conciliabili… Non a caso qualcuno ha affermato che la drammaticità della convivenza (umana) risiede nel fatto che solitamente si confrontano ragioni da una parte e ragioni dall’altra!
Insegnamenti utili sul rapporto tra quantità di popolazione e rango economico-sociale di una determinata civiltà possono essere ricavati da studi di Demografia storica sufficientemente approfonditi; a questo riguardo, occorre tenere ben presenti i disastri ambientali provocati da un tasso di natalità eccessivamente elevato: ad esempio, infatti, l’illustre biologo E.O. Wilson ha affermato che “il mostro che imperversa nei continenti è l’aumento demografico incontrollato: un mostro davanti al quale il concetto di sviluppo sostenibile non è che una fragile enunciazione teorica”. Il caso degli antichi abitanti dell’isola di Pasqua probabilmente è fin troppo noto per avere bisogno di menzione, ma altri spunti interessanti sono facilmente rintracciabili nelle pagine dedicate al tema del biogeografo-scrittore J. Diamond. Più in generale, i disastri non solo ambientali ma anche economici, politici e sociali causati da un tasso di natalità troppo alto in relazione alle risorse disponibili sono stati sottolineati con dovizia di particolari ad es. dallo psico-politologo L. De Marchi.
A questo riguardo, ci sembra opportuno sottolineare l’assoluta inconsistenza della tesi, peraltro abbastanza diffusa e propagandata, secondo la quale l’unica risposta possibile di fronte alle crescenti ondate migratorie extra-comunitarie è quella, ormai anacronistica, di incentivare ed incrementare la natalità in Italia (e in Europa), magari anche nella ottica della prevenzione di (eventuali) dissesti pensionistici futuri: chiunque analizzi in maniera del tutto scevra da paraocchi ideologici la questione, si renderà conto che una risposta di questo tipo non fa altro che aggiungere problema a problema, e che il tendenziale invecchiamento medio della popolazione italiana ed europea sarà ampiamente compensato all’inevitabile “regolarizzazione” di buona parte dei migranti in entrata.
Incidentalmente è opportuno precisare che, quando a questo riguardo si tira in ballo la massiccia emigrazione europea e italiana nelle Americhe (1800-1950 ca.), solitamente si trascura il fatto che il Continente americano, con particolare riferimento agli Stati Uniti, allora (così come in parte anche oggi) abbondava di potenziali opportunità di sviluppo economico-sociale, soprattutto perché, al contrario di buona parte dell’Europa e in particolare dell’Italia odierne, non presentava alcun problema di sovrappopolazione. Come scrive il politologo G. Sartori, infatti, i numerosi nuovi arrivati “trovano, nel Nuovo Mondo, uno sterminato spazio vuoto… invece il Vecchio Mondo è da gran tempo un mondo senza spazi vuoti”; senza contare che “i nuovi venuti che oggi entrano in Europa, entrano in un contesto diversissimo da quello degli immigrati che hanno creato la nazione statunitense”… Ugualmente di fronte all’accusa, costantemente aleggiante allorché si discute questo tema, di razzismo. Sartori annota (a nostro avviso opportunamente) che si tratta di “un’accusa sbrigativa, superficiale, che generalizza troppo, e che rischia di essere altamente controproducente”: con convinzione ripetiamo che, a nostro avviso, i fattori determinanti sono quelli economici e quelli demografici.
Peraltro non va trascurato il significativo apporto che la popolazione immigrata è in grado di fornire e già sta concretamente fornendo alla crescita del PIL dei Paesi ospitanti.
Naturalmente gli imponenti movimenti migratori di questi anni si intrecciano con quel multiforme e discusso fenomeno denominato “globalizzazione”, al quale appare opportuno dedicare ora qualche specifica (sebbene sintetica) considerazione.
La globalizzazione
Introdotto dal sociologo A. Giddens, il concetto di G. notoriamente si riferisce alla crescente integrazione economico-finanziaria, geo-politica e socio-culturale favorita dagli attuali, imponenti e rapidi progressi dei sistemi di trasporto e di quelli telematici.
Premesso che essa non può essere considerata una novità assoluta (ad es. nell’ormai lontano 1819 B. Constant annotava: “Il commercio ha avvicinato le nazioni e ha dato loro costumi e abitudini pressochè uguali”), occorre sottolineare che la G. è un processo ricco non solo di rischi ma anche di opportunità e comunque ormai sostanzialmente irreversibile: appare dunque saggio prenderne atto ed accettarne in modo critico la presenza e le implicazioni di varia natura. Ad esempio, sulla scia di John S. Mill gioverà ricordare la marcata non-sovrapponibilità dei concetti di “economia di mercato” (efficace produttore di ricchezza) e “società di mercato” (produttrice di crescenti e alla lunga inaccettabili disuguaglianze).
Peraltro, come le cronache frequentemente testimoniano (più o meno) agguerrite sacche di “resistenza” economico-politico-sociale alla G. non mancano affatto…
La crescente liberalizzazione della circolazione dei capitali e delle merci non può trascurare quella delle persone: ciò naturalmente non significa che quest’ultima non possa/non debba essere GOVERNATA nella maniera più equilibrata e ragionevole possibile: se ne riparlerà in seguito. Ora ci sembra opportuno aggiungere solamente che il termine stesso “circolazione” implica, almeno teoricamente, un flusso bi-direzionale: caratteristica che, come (almeno fino a qualche anno fa) di abitudine nel mercato calcistico italico, viene poco o per nulla rispettata… con il conseguente, preoccupante innalzamento del già elevato tasso di densità demografica di alcuni Paesi euro-occidentali e dell’Italia in particolare: un adeguato rafforzamento degli investimenti commerciali, industriali e scientifico-tecnici internazionali potrebbe (contribuire a) risolvere questo ulteriore problema.
Lo stato dell’arte
Resta il fatto che i processi di G. modificano il quadro di ogni moderna democrazia liberale “ponendo nuove sfide, smantellando garanzie, producendo maggiore insicurezza” (P.P. Portinaio). Tutto ciò mentre masse umane crescenti premono alle frontiere del mondo occidentale per sfuggire ai disastri provocati dalla galoppante crescita demografica, dal sottosviluppo economico-sociale, dalle calamità naturali e dagli episodi bellici che attanagliano (in una sorta di inquietante circolo vizioso, a quanto sembra molto difficile da spezzare anche per motivi psico-culturali) vaste aree africane, asiatiche e latino-americane.
In relazione a chi è già entrato, invece, si pone la questione, altrettanto spinosa dell’INTEGRAZIONE: una questione inevitabilmente ricca di sfaccettature teoriche e pratiche (si pensi a quella giuridica, una delle più spinose: la querelle relativa al velo femminile mussulmano è ormai fin troppo nota per dover essere ricordata). Gli atteggiamenti degli immigrati stessi in merito possono essere numerosi e a volte molto diversificati (cfr. le cinque “forme” psicologiche delineate a questo riguardo da Paolo M. Erede: interiorizzazione, identificazione, imitazione, indipendenza, graduale assimilazione); ad ogni modo, come ricorda Sartori, “l’integrazione avviene tra integrabili e la cittadinanza concessa a immigrati inintegrabili non porta a integrazione ma a disintegrazione”.
Ecco profilarsi sempre più nitidamente all’orizzonte l’importante quesito generale, formulato dal filosofo della politica J. Rawls nei segg. termini: “Com’è possibile che esista una società stabile e giusta i cui cittadini, liberi ed eguali, sono profondamente divisi da dottrine religiose, filosofiche e morali contrastanti e perfino incompatibili?”
Il prossimo capitoletto cercherà di presentare alcune possibili risposte a tale quesito: non senza avere prima ricordato che i conflitti / gli scontri non avvengono tra culture differenti, bensì tra individui/gruppi appartenenti a determinate culture: come sottolineato dall’antropologo M. Aime, “se pensate come un dato assoluto, le culture divengono un recinto invalicabile… Ogni identità è fatta di memoria e di oblio. Più che nel passato, va cercata nel suo costante divenire”.
5. Possibili soluzioni
Principali approcci filosofici
Di fronte ai problemi della società multietnica, si registrano fondamentalmente quattro approcci che possiamo definire filosofico-politici:
1. multiculturale;
2. pluralista (culturale);
3. monoculturale;
4. multicomunitario.
Tuttavia, sulla scia dell’analisi elaborata da Sartori nel lucido saggio “Pluralismo, multiculturalismo ed estranei”, la dicotomia fondamentale ci sembra quella tra il primo e il secondo approccio. Nell’ottica della ricerca della “buona convivenza”, di fronte al potenziale smembramento della società indotto dal diffuso approccio multiculturale, peraltro a sua volta declinato in vari modi (come abbiamo visto, al riguardo si parla di ben quattro modelli fondamentali, senza trascurare il fatto che, più in generale, tutte queste classificazioni non sono prive di “intersezioni”), appare preferibile un’impostazione fondata su un equilibrato pluralismo delle culture, in grado di promuovere/difendere una società aperta (nell’accezione del termine proposta e resa celebre da K.P. Popper, ovvero una società nella quale soprattutto sia consentita la pratica della critica razionale, pane quotidiano all’interno della comunità scientifica) e libera, a partire da concrete e (ampiamente) discusse questioni etico-politiche e sociali come quella della “cittadinanza”: a questo proposito, vale la pena ricordare en passant che “essere cittadini non significa soltanto fruire di beni-diritti soggettivi, ma impegnarsi a contribuire alla loro produzione” (Gian E. Rusconi), ovvero concedere molto (troppo?) facilmente da cittadinanza nazionale non è sufficiente a risolvere alcunché.
In altri termini, l’approccio pluralista sembra costituire l’aristotelico “giusto mezzo” tra due posizioni tendenzialmente opposte ed estreme: da una parte l’apertura entusiastica, indiscriminata e marcatamente egualitaria ad ogni (anche minimo) grumo di differenza etnico-culturale fisicamente presente in un determinato territorio, dall’altra l’antistorico e dogmatico arroccamento attorno a (reali o addirittura create ad hoc) identità “forti” e pertanto reciprocamente non comunicanti o addirittura radicalmente inconciliabili.
Facendo ancora riferimento a Sartori, possiamo affermare che l’approccio multiculturale, sebbene sostenuto anche da pensatori autorevoli (ad es. C. Taylor), viceversa inverte la direzione di marcia pluralistica che alimenta la moderna civiltà democratico-liberale, e tende a condurre da una convivenza fondata su una pacifica discordanza “ad un vivere dissociato di discordia senza concordia”, evidentemente denso di pericoli.
È il caso di aggiungere che, secondo l’economista-filosofo A. Sen, esistono due versioni fondamentali del multiculturalismo: la prima tesa alla promozione delle differenze in quanto tali, la seconda imperniata sulla libertà (individuale) di decisione/scelta: quale tra le due risulti più promettente ma anche più ragionevole, dovrebbe apparire evidente a chiunque ragioni (o perlomeno si sforzi di ragionare) senza pregiudizi di sorta. Teniamo presente che già nel Seicento con lungimiranza B. Spinoza aveva affermato che “il fine dello Stato non è quello di trasformare gli uomini da esseri razionali in bestie o in macchine, ma al contrario quello di garantire che la mente e il corpo di essi adempiano con sicurezza alla loro funzione, che essi si servano della libera ragione e non si combattano con odio e inganno né si affrontino con animo iniquo”.
Identità, differenze, confini
A Sen si deve anche una delle analisi più illuminanti (contenuta in un saggio pubblicato in Italia pochi mesi fa) del nesso esistente tra una concezione forte dell’identità etnico-culturale e il ricorso alla violenza.
Elemento indispensabile alla costruzione delle nostre identità è naturalmente l’alterità: secondo l’etnologo E. De Martino, il rapporto con l’alterità caratterizza l’umanesimo contemporaneo e la conoscenza / il rispetto dell’altro affina la conoscenza di noi stessi (tesi peraltro affine a quella sostenuta, sia pure sulla base di differenti presupposti, dal filosofo M. Buber).
In ogni caso, come accennato in precedenza, il concetto di I. è suscettibile di diverse declinazioni (individuali e collettive, psicologiche e sociali) e pone una serie di questioni tuttora aperte: se, come filosoficamente intuito da Montagne e da D. Hume, esplicitamente affermato da S. Freud e (induttivamente) confermato dall’esperienza individuale quotidiana, “l’Io non è padrone a casa propria”, le identità personali e (forse a maggior ragione) quelle collettive risultano “cantieri sempre aperti”, ossia il frutto di una faticosa e costantemente precaria costruzione anziché qualcosa di già dato (e definito) a priori. Uno dei pensatori più determinati a sottolineare il fatto che ogni individuo è attraversato da molteplici identità differenti è stato ancora una volta Sen, alle penetranti riflessioni del quale ci sembra opportuno in questo caso affiancare il seguente detto tradizionale nordafricano: “le persone di una persona sono numerose in ogni persona”…
Se ogni I. contiene molteplici differenze, evidentemente non è (più) possibile assolutizzare alcuno dei due concetti in discussione, che dunque non possono / non devono essere posti in reciproca e radicale contrapposizione: viceversa è opportuno sottolineare e potenziare la loro costante tensione dialettica, che ne delinea e modifica nel tempo i confini.
Il concetto stesso di “confine” appare (sempre più) problematico: non a caso esso ha costituito l’argomento centrale della Fiera torinese del Libro e del Festival filosofico romano di quest’anno. I confini economici, geo-politici, culturali, ecc., infatti, si spostano nello spazio e nel tempo (P.M. Erede stesso affermava l’esigenza di una rivisitazione della cultura spaziale e specialmente di quella temporale).
Il confine / la frontiera si situa in un certo qual modo a metà strada tra l’impenetrabilità della barriera e la “contaminazione” dell’intersezione: cosicché, di fronte al complesso scenario internazionale contemporaneo, ad esempio la sociologa S. Benhabib sostiene l’opportunità di confini sufficientemente “porosi”, nella faticosa ma pressoché indispensabile tensione verso un federalismo cosmopolitico di lontana matrice kantiana non privo di una base etica (magari minima) universalmente condivisa. Gli atteggiamenti assunti di fronte ad una pratica tradizionale ampiamente (e aspramente) dibattuta come l’infibulazione femminile, possono costituire la “cartina di tornasole” per saggiare la concreta praticabilità di un simile, ambizioso progetto.
In tale ottica appare molto importante favorire/potenziare la conoscenza (individuale e di gruppo) reciproca: un formidabile veicolo in questa direzione è costituito dalla Scienza: come osservò già parecchi anni fa B. Russell, “nell’accavallarsi dei fanatismi in conflitto, una delle poche forze unificatrici è la verità scientifica, con cui intendo indicare l’abitudine di basare le nostre convinzioni su osservazioni e deduzioni tanto impersonali e tanto immuni da deformazioni locali e individuali, quanto è possibile a degli esseri umani”; analogamente, nella Carta della Scienza proposta nel 2005 da U. Veronesi è possibile leggere: “il linguaggio universale della S. e la razionalità del metodo scientifico hanno il potere di rendere compatibili mondi altrimenti inconciliabili… rendendo possibile un dialogo pacificatore”. Probabilmente nessuna attività oggi ha una dimensione collaborativa (oltre che competitiva) e tendenzialmente globale quanto l’impresa scientifica e tecnica, come accennato in precedenza e testimoniato dallo spettacolare progetto scientifico-tecnico caratteristico dell’età contemporanea e in particolare di questi ultimi anni.
Non ci sembra fuori luogo aggiungere che, sempre in questi ultimi anni, una scienza “di confine” come l’Etnopsichiatria ha evidenziato la sostanziale infondatezza del tradizionale modello astratto, univoco, e generale/generico di “essere umano” e di “salute mentale”.
Esigenza di razionalità
Comune a buona parte degli autori che si sono occupati del complesso tema della società multietnica contemporanea è la sottolineatura dell’esigenza di scelte RAZIONALI o perlomeno RAGIONEVOLI: gli attuali fenomeni migratori presentano una serie di rischi ma anche alcune opportunità, ma soprattutto costituiscono un fenomeno “strutturale” e dunque devono essere governati nella maniera più equilibrata e “scientifica” possibile, mescolando con saggezza diritti e (ovviamente) doveri delle popolazioni indigene e di quelle immigrate: tra civile accoglienza e tutela della sicurezza.
In tale prospettiva fondamentale appare il ricorso al alcuni principi (almeno teoricamente) scontati in ogni società autenticamente liberaldemocratica: l’etica del dia-logos (cfr. il pensiero di G. Calogero), una rigorosa laicità delle istituzioni (con quale coerenza logica / onestà intellettuale qualcuno può chiedere al mondo islamico, anzi pretendere da esso quella netta separazione tra politica, religione e diritto, se egli stesso non la pratica o la pratica solo in parte?), una moderna tolleranza (vedasi il saggio dedicato dal filosofo politico M. Walzer a questo tema), la tendenziale uni-cità delle regole (in Paesi come l’Italia il vecchio, prezioso e spesso trascurato principio della “certezza del diritto” può essere rafforzato anche semplificando e sfrondando l’enorme “giungla” burocratico-legislativa), il rispetto della reciprocità (come scrive Sartori, “entrare in una comunità pluralistica è, congiuntamente, un acquisire e un concedere: stranieri che non sono disposti a concedere alcunché in cambio di quel che ottengono, che si propongono di restare “estranei” alla comunità nella quale entrano sino al punto di contestarne, quantomeno in parte, gli stessi principi, inevitabilmente suscitano reazioni di rigetto, di paura e di ostilità”) e soprattutto un’adeguata tutela dei diritti individuali (civili, sociali e umani), che consenta ai singoli soggetti in particolar modo la maggiore libertà/responsabilità possibile di scelta tra le differenti opzioni identitarie effettivamente disponibili in un dato territorio e in un determinato momento storico (a partire ovviamente da quella espressa dal gruppo etnico-culturale dal quale essi concretamente provengono).
Un impulso determinante in tale direzione può evidentemente essere fornito dalle principali Organizzazioni politico-giuridiche internazionali quali l’O.N.U. e l’Unione Europea: ad esempio, quest’ultima darebbe un importante segnale di apertura e di fiducia nei confronti del mondo islamico (moderato) accelerando anziché rallentare le procedure per l’ingresso ufficiale e a pieno titolo della Turchia nell’UE stessa; la tendenziale inevitabilità del coinvolgimento dell’UE nel governo degli attuali fenomeni migratori è peraltro testimoniata dalle ricadute di questi ultimi sui contenuti del ben noto Trattato di Schengen; ovviamente un’autentica Federazione europea (i famosi ma purtroppo ancora lontanissimi Stati Uniti d’Europa, auspicati da personaggi del calibro di C. Cattaneo ed A. Spinelli) potrebbe/dovrebbe occuparsi della questione in maniera più diretta ed efficace.
Senza trascurare il fatto che, come osservato in particolare da F. von Hayek, le società umane si reggono sostanzialmente su processi di auto-organizzazione, frutti almeno in larga misura inintenzionali (e dunque mai adeguatamente pianificabili a tavolino) di molteplici serie di decisioni intenzionali individuali.
Ovviamente i conflitti / gli scontri non mancano e non mancheranno (le cronache ne danno esempi frequenti): sulla base di tali presupposti, tuttavia, essi ragionevolmente potranno venire incanalati verso soluzioni pacifiche o comunque sufficientemente non-distruttive. Nella moderna società della comunicazione, un contributo importante in tale direzione può/deve essere fornito proprio dai mass-media: come ci ricorda un antico proverbio cinese, purtroppo “fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce”, tuttavia il frequente ricorso a toni parossistici e sensazionalistici nella comunicazione di determinati fatti di cronaca certamente non aiuta, anzi finisce per distorcere in qualche modo la realtà e favorire incomprensioni ed ostilità tra individui/gruppi appartenenti ad etnie differenti.
6. In conclusione
Secondo un intellettuale multiforme come T. Todorov, la sfida della società multietnica richiede “un umanesimo ben temperato”: possiamo provare a tradurre questa espressione nel senso (della ricerca) di un difficile ma fondamentale equilibrio (costantemente modificabile sulla base delle esigenze via via emergenti) tra identità ed alterità, tra rispetto/tutela delle differenze e spinta teorico-pratica universalistica, tra locale e globale (si pensi al neologismo “glocal”). Per fare un esempio concreto, posizioni di separatismo aggressivo, radicale ed auto-referenziale come quelle propagandate dalla frangia estrem(ist)a del movimento femminista non possono essere accettate, non fosse altro per-ché logicamente auto-contradditorie: eliminare qualsivoglia rapporto con gli esponenti del genere maschile e (almeno tendenzialmente) confinare questi ultimi in moderne “riserve indiane”, infatti, significherebbe sostanzialmente eliminare anche la tanto celebrata differenza femminile, che naturalmente può formarsi ed emergere solo in relazione ad un’alterità, oltre che assumere un atteggiamento assolutamente uguale e contrario rispetto a quello tenuto dai vari integralismi religiosi, solitamente di stampo patriarcale.
Come affermato da M. Walzer, un’auspicabile e duratura convivenza pacifica “può assumere forme politiche molto differenti e tali forme hanno implicazioni a loro volta differenti per la vita morale di ogni giorno… nessuna di queste forme è universalmente valida”; la posizione, a nostro avviso molto ragionevole, difesa da Walzer, in base alla quale “a ispirare le nostre scelte non sia un unico principio universale… e una scelta giusta da effettuarsi qui non sia necessariamente la scelta giusta anche là” può essere definita relativistica, attributo oggi presso caricato di valenza fortemente negativa, tuttavia chiaramente non si tratta di un relativismo assoluto: come infatti afferma ancora Walzer, “sostenere che gruppi e/o individui diversi devono poter coesistere pacificamente non equivale a dire che occorre tollerare ogni differenza reale o possibile”; conseguentemente il pensatore ebreo-statunitense dedica un paragrafo del suo saggio al problema della tolleranza verso gli intolleranti. Ci sembra il caso di aggiungere solamente che, secondo Walzer, la “tolleranza” copre un ampio spettro di possibili atteggiamenti (nei confronti della diversità entico-culturale), che vanno dalla rassegnazione e dall’indifferenza alla curiosità e all’entusiasmo passando attraverso una sorta di accettazione stoica.
A questo punto ci sembra opportuno ricordare la seguente annotazione del noto filosofo neo-pragmatista (recentemente scomparso) R. Rorty:”un’utopia democratica è una comunità in cui la tolleranza e la curiosità, più che la ricerca della Verità, sono le principali virtù intellettuali; in cui non c’è niente di remotamente simile a una religione (o a una filosofia) di Stato”.
La nostra sensazione dominante, comunque, qualcosa in più di una semplice speranza, è che la complessità sociale contemporanea e lo scorrere degli anni e dei decenni tenderanno a ridimensionare considerevolmente la portata della maggior parte dei problemi (relativi alla società multietnica) che attualmente sembrano invece pressoché irresolubili: naturalmente a meno del verificarsi di eventi catastrofici e a patto di evitare semplificazioni e sottovalutazioni del tutto fuori luogo.
Tutto ciò con la lucida consapevolezza che il punto di partenza deve
essere comunque costituito dall’equilibrio tra le risorse disponibili in un
determinato territorio e la quantità di popolazione che su quest’ultimo
insiste (a questo proposito, come accennato in precedenza la connessione con i
crescenti problemi ecologici internazionali dovrebbe risultare evidente): in
caso contrario, anche i principi più nobili e le più suadenti campagne
pubbliche di educazione alla convivenza tenderanno tragicomicamente a ridursi,
per dirla con J. Bentham, a pura (e ovviamete del tutto sterile) “metafisica
sui trampoli”.
7. Nota bibliografica
Su carta:
- M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi 2004;
- S. Benhabib, I diritti degli altri: stranieri, cittadini, residenti, Raffaello Cortina 2006;
- P.M. Erede, I problemi della società multietnica (tratto da volume “Florilegio: filosofia, storia, umanologia”), Giuseppe Laterza 2005;
- C. Geertz, Mondo globale, mondi locali: cultura e politica alla fine del XX secolo, Il Mulino 1999;
- Multiculturalismo: ideologie e sfide (a cura di C. Galli), Il Mulino 2006;
- J. Rawls, Liberalismo politico, ed. Comunità 1994;
- G. Sartori, Pluralismo, multiculturalismo ed estranei (Saggio sulla società multietnica), Rizzoli 2000;
- Sen, Identità e violenza, Laterza 2006;
- T. Todorov, Noi e gli altri (La riflessione francese sulla diversità umana), Einaudi 1991;
- M. Walzer, Sulla tolleranza, Laterza 2000.
Sul web:
- www.emsf.rai.it (parola-chiave: multiculturalismo)
- www.ismu.org (iniziative e studi sulla multietnicità);
- www.rientrodolce.ord (per i problemi legati alla “bomba demografica”);
- www.swif.uniba.it (parola-chiave: multiculturalismo)
www.wikipedia.it (settori disciplinari di rif.to: antropologia, diritto, filosofia, psicologia, sociologia).
Indice del Quaderno N. 1 – 2008
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