Quaderni della Fondazione Professor Paolo Michele Erede a cura di Michele Marsonet

Quaderno N. 1 – 2008. “I Problemi della Società Multietnica”
Numero monografico dedicato agli elaborati vincitori della Prima Edizione del Premio Professor Paolo Michele Erede

Michele Marsonet - Introduzione: Il ruolo della cultura nella società multietnica.

La Fondazione “Prof. Paolo Michele Erede”, presentata ufficial­mente presso la Biblioteca Berio il 23 marzo 2006, ha concluso un anno di intensa attività con la prima edizione del Premio “Prof. Pa­olo Michele Erede”. Il bando di concorso, rivolto a tutte le persone interessate ai problemi filosofici, ha consentito di selezionare alcuni saggi significativi, che sono stati premiati nel corso di una cerimonia pubblica tenutasi a Genova venerdì 26 ottobre 2007, alle 17.30, nel Circolo Unificato dell’Esercito, in Via San Vincenzo 68. Alla cerimo­nia, promossa dalla Presidente della Fondazione, la Dott.ssa Franca Erede Dürst, hanno partecipato i tre membri della Commissione giudicatrice: il Prof. Michele Marsonet, Preside della Facoltà di Let­tere e Filosofia e Presidente delle Commissioni Scientifiche della Fondazione; il Prof. Stefano Monti Bragadin della Facoltà di Scienze Politiche, e il Professor Silvio Parodi della Facoltà di Medicina e Chi­rurgia. Tutti dell’Università degli Studi di Genova. Erano altresì pre­senti i membri del Consiglio di Amministrazione della Fondazione: l’avv. Guido Manara, Vice Presidente, ed il dott. Luigi Pam­pana Biancheri, Segretario Generale.

Com’è noto, la Fondazione ha lo scopo di tener vivo il pensiero del Professor Erede, insigne esempio di persona di formazione scienti­fica con forti interessi umanistici, e filosofici in particolare. Per Paolo Michele Erede non esisteva alcuna distinzione tra cultura umanistica e scientifica. Nel corso della sua vita ha sempre cercato di superare questa separazione artificiosa, come del resto si può evincere dalla sua raccolta di scritti postumi Florilegio (Giuseppe Laterza, Bari 2005), voluta dalla moglie Franca Erede Dürst e curata dalla Prof.ssa Laura Pellerano. Proprio da tale raccolta è tratto il saggio “Le com­patibilità per una cultura dell’incontro in una società multietnica” (pp. 63-72), e ad esso si sono ispirati i concorrenti per sviluppare i loro temi.

Si noti che, nel saggio dianzi menzionato, il Prof. Erede parla di una “cultura dell’incontro”, e tale notazione è densa di significato. Che cosa può dire oggi la filosofia sui temi della diversità culturale e della società multietnica? È ancora in grado di offrire strumenti per immaginare e costruire realtà e società veramente “cosmopolite”? E quale tipo di educazione risulta più adatto a formare cittadini che vivono in un mondo multirazziale, caotico e complesso, “simile più a un bazaar kuwaitiano che non a un club per gentiluomini inglesi”, per usare una frase del celebre antropologo americano Clifford Ge­ertz? Si tratta, in sostanza, di capire se risulta tuttora proponibile la fiducia degli Illuministi nell’esistenza di “invarianti” culturali atem­porali, in grado di unificare persone provenienti da società e culture assai diverse tra loro.

La capacità o incapacità di convivere dipende non solo dalle vicende storiche, ma anche dal sistema di leggi adottato. Esistono abitudini linguistiche, dettagli del comportamento, gesti e parole che possono spesso tradire forme di intolleranza e di razzismo. Ma è essenziale rammentare che la scelta di fondo in tema di diversità culturale è tra una politica che privilegia le differenze etniche, razziali e religiose, e una politica che incoraggia la conservazione di una identità cultu­rale condivisa da tutti. Entrambe hanno vantaggi ed inconvenienti. Non dobbiamo tuttavia scordare che i valori non sono dati nel mondo sensibile né in quello trascendente, ma vengono creati dalle decisioni umane. E allora è chiaro che, ancorando i valori stessi al flusso degli avvenimenti storici, essi si rivelano per quello che effet­tivamente sono, e cioè assunzioni di fondo che un individuo – o, meglio, un gruppo di individui – adotta in un ben preciso e tempo­ralmente determinato momento storico. I valori non se ne stanno immobili in qualche sorta di platonico mondo delle Idee, e le teorie concernenti sia l’etica, sia l’organizzazione politico-sociale – come del resto quelle della scienza – vengono costruite proprio al fine di essere sottoposte alla prova.

I valori, dunque, evolvono di conserva con il cammino storico del genere umano. Non è vero, in altri termini, che vi siano valori asso­lutamente inconciliabili, civiltà incapaci di comunicare, teorie scien­tifiche incommensurabili tra loro. È una questione di misura: basta non ipostatizzare il concetto di valore (o qualsiasi altro concetto) per comprendere che, in fondo, resta sempre aperta la possibilità di compiere una scelta. Karl R. Popper ci ha mostrato per esempio che la storia della scienza è, in fondo, un grande cimitero di teorie: non si deve mai assolutizzare la conoscenza scientifica del presente, poi­ché l’esperienza dimostra che anche quelle che noi oggi giudichiamo le teorie scientifiche “migliori” sono, prima o poi, destinate ad essere superate.

Tuttavia, non esistono ragioni cogenti che ci impediscano di esten­dere questo ragionamento anche ad altri terreni. Gli uomini di ogni periodo storico tendono a vedere anche l’organizzazione etica (e quella socio-politica) in cui vivono come finale e definitiva: si tratta della perenne tendenza umana a giudicare definitivi i propri pro­dotti. Ma la storia ci insegna che questo è illusione: ogni nostra co­struzione è toccata dalla contingenza e dallo scorrere del tempo.

Si è spesso detto, a tale proposito, che l’accordo sulla possibilità – e la stessa desiderabilità – di una maggiore comprensione reciproca tra gli esseri umani, da realizzarsi mediante la comunicazione, è ve­nuto meno. Ne avrebbe determinato la fine il risorgere di odi a lungo repressi, odi che hanno la loro fonte nelle differenze insite nelle identità nazionali, etniche e religiose. Saremmo insomma di fronte alla fine delle concezioni universalistiche che hanno permeato gli ultimi tre secoli. A ciò si aggiunge lo scetticismo derivante dal crescente successo delle idee postmoderne sul piano filosofico e po­litico.

In realtà, se noi guardiamo alla storia, il declino delle concezioni universalistiche non è specifico della nostra epoca. La riaffermazione delle identità nazionali, etniche e religiose è un fenomeno ricorrente, il quale si verifica ogni volta che qualche impero sovranazionale, più o meno tirannico, crolla. Né appare lecito considerare la risorgenza delle identità come segnale di un definitivo abbandono del cosmo­politismo. Fenomeni di questo tipo sono già avvenuti, a ritmo ci­clico, nel passato, e non dovrebbero indurci ad essere pessimisti circa un rinnovato successo in futuro di ideali che puntino ad unire piuttosto che a dividere, ad esaltare i fattori che ci accomunano in quanto esseri umani piuttosto che a sottolineare gli elementi che ci separano gli uni dagli altri.

Qui gioca un ruolo preminente la superbia degli intellettuali, o al­meno di alcuni di essi. Come se il mutamento di paradigmi all’interno del mondo accademico potesse determinare il corso degli eventi. È vero, piuttosto, il contrario. Sono i mutamenti storici ad in­nescare lo spostamento di interessi degli intellettuali. L’utopia del cosmopolitismo è forte quando le condizioni storiche ne consentono la sua diffusione ed espansione. Gli intellettuali, e in particolare i fi­losofi, altro non fanno che registrare ciò che accade intorno a loro, essendo influenzati dal clima di speranza o di pessimismo che respi­rano.

La perdita di fiducia nel cosmopolitismo, l’attuale – ma certo non definitivo – declino delle idee universalistiche, non sono fenomeni la cui origine possa farsi risalire a circoli intellettuali o addirittura ac­cademici in senso stretto. Essi riflettono, piuttosto, la percezione dif­fusa che il futuro non possa essere migliore. Non è così frequente, oggi, trovare qualcuno che creda veramente nella possibilità di dar vita ad una società senza classi. E non intendo tale espressione in senso strettamente marxista. Parlo della speranza che cessino le spe­requazioni tra le opportunità di cui possono fruire gli individui delle varie nazioni, e anche all’interno di una sola nazione.

È opportuno notare, a questo punto, che quando pensare ad una so­cietà senza classi sembrava del tutto ovvio e normale, l’interesse per la sopravvivenza delle identità sembrava un problema di minore importanza. Non si trattava certo di poco rispetto per le specificità nazionali, etniche e religiose. Si pensava, piuttosto, che la diffusione di una visione del mondo e di una cultura globali avrebbe apportato tanti e tali vantaggi da mettere in secondo piano l’interesse per la sopravvivenza delle identità. Che importa, in fondo, la difesa delle proprie specificità, se l’obiettivo da raggiungere è una società sovra­nazionale in cui vi sia davvero l’uguaglianza delle opportunità? L’aspirazione universalistica, che affonda le proprie radici nell’Illuminismo, è alla base della speranza che il futuro vada co­stantemente migliorando.

Non voglio però essere frainteso, parlando solo di marxismo e di so­cietà senza classi. Perché è un fatto che universalismo e cosmopoliti­smo si sono incarnati, soprattutto dal dopoguerra in poi, in due di­verse ideologie. Da un lato la tradizionale visione marxista della so­cietà mondiale senza distinzione di classi o razze, frutto di una ri­voluzione proletaria seguita dall’abolizione della proprietà privata.

Dall’altro una visione del mondo forse meno elaborata dal punto di vista teorico, ma altrettanto influente. Era opinione assai diffusa nel mondo occidentale dopo il 1945 che la pace appena conseguita, unitamente allo sviluppo scientifico abbinato a quello tecnologico, avrebbero reso possibile una prosperità economica prima inimma­ginabile entro la cornice del libero mercato. Il “sogno”, se così lo vo­gliamo chiamare, era che la prosperità economica avrebbe a sua volta innescato un processo globale di rinnovamento politico, fa­cendo sì che alla fine l’ordinamento liberal-democratico si esten­desse al mondo intero. Senza coercizione, s’intende, ma in virtù della sola forza di persuasione, generata dal successo pratico.

Ecco quindi che la rinnovata prosperità economica avrebbe reso possibile una globalizzazione del welfare state e della democrazia politica anche negli angoli più remoti del mondo, assicurando alle generazioni future l’eguaglianza delle opportunità. E si noti che si­mili idee non erano diffuse soltanto tra gli intellettuali di profes­sione. Molti politici firmatari della Carta delle Nazioni Unite ave­vano chiaramente in mente questo tipo di scenario venato di utopia. Infatti, pur sempre di utopia si trattava, anche se diversa da quella marxista. Niente rivoluzione violenta, nessuna abolizione della pro­prietà privata, fiducia nella bontà delle proprie idee.

È opportuno notare, a questo punto, che non esiste una fisica o una biologia italiana, europea o americana, ma una fisica e una biologia tout court. La scienza, in altri termini, è un potente strumento di su­peramento delle barriere politiche, linguistiche e razziali. È cultura cosmopolita per eccellenza: non a caso, essa ha sempre avuto pro­blemi con i regimi totalitari, di qualunque colore fossero. Rammen­tiamo a questo proposito l’imponente emigrazione dei grandi scien­ziati europei verso le nazioni libere negli anni Trenta del secolo scorso (Enrico Fermi e Albert Einstein costituiscono due casi tra i più emblematici). La scienza è dunque tentativo costante di conoscere oggettivamente il mondo, e ciò nulla ha a che fare con le differenze politiche, etniche o religiose. Karl Popper ha affermato a tale propo­sito che esiste, tra la ricerca scientifica e la prassi liberal-democratica, una sorta di armonia prestabilita. La ricerca è tanto più prospera quanto più si sviluppa nel clima di libertà che le è naturale, mentre lo spirito che anima la scienza rafforza le strutture della società libe­rale. Al rifiuto di ogni dogmatismo, la scienza moderna unisce la pratica costante della cooperazione e del lavoro collettivo. Lo scien­ziato fa parte di una comunità: la sua vita quotidiana e la natura stessa del suo lavoro gli conferiscono una certa forma di saggezza. Un aspetto importante del problema dei rapporti tra lo studioso e la società è fare in modo che l’insieme dell’umanità possa beneficiare dei valori propri degli ambienti scientifici. Proprio in ciò dovrebbe risiedere l’apporto della scienza alla cultura e al progresso.

La scena, oggi, è molto cambiata. L’esperimento marxista, volto a trovare un sostituto soddisfacente dell’economia di mercato, è fal­lito, anche se vanta tuttora dei sostenitori. Tuttavia, l’utopia del li­bero mercato come panacea di tutti i mali sociali non ha incontrato sorte migliore. Questo perché tra sviluppo economico ed egua­glianza delle opportunità non esiste affatto una connessione mecca­nica o necessaria. È quindi la perdita della fiducia in entrambe le forme di utopia egualitaria a far sì che molti guardino preoccupati al processo di globalizzazione. Si tratta di una preoccupazione dettata da motivi pratici e concreti, piuttosto che da teorizzazioni politico-filosofiche.

Occorre rovesciare lo schema concettuale che finora è stato in pre­valenza utilizzato, quello che vede le scelte politiche quali conse­guenze di elaborazioni puramente teoriche. Le scelte politiche di grande portata vengono effettuate non in base a teorie filosofiche precise, ma guardando al corso dello sviluppo storico concreto che si dipana davanti ai nostri occhi. Si tratta di una sequenza di eventi che solo a posteriori riusciamo a classificare e ad inserire in una cornice precisa. La filosofia politica e i vari tipi di teoria sociale svolgono, in questo caso, il ruolo del sistematizzatore piuttosto che quello del battistrada.

Così si spiega che la descrizione dello stato data da Locke e Hobbes dipendesse dalla storia inglese a loro più o meno coeva. La filosofia marxiana dalla nascita della borghesia e dall’emancipazione del proletariato. Quelle di Dewey e Rawls dalla recente storia ameri­cana. Questi pensatori hanno formulato la loro tassonomia dei fe­nomeni sociali. Hanno usato i loro strumenti concettuali per criticare le istituzioni esistenti, ma sempre in riferimento ad un certa descri­zione storica di ciò che è accaduto e accade. Solo partendo da questo punto possiamo immaginare cosa potrebbe riservarci il futuro.

In realtà, in tema di scelta politica la filosofia ha un prezioso ruolo di ausilio, non uno di invenzione. In altre parole, la filosofia è utile per­ché fornisce ri‑descrizioni dei fenomeni sociali se si sa quali sono gli obiettivi e dove si vuole arrivare. A loro volta, queste ri‑descrizioni, formulate inizialmente in un gergo incomprensibile ai profani, pos­sono diventare proprietà di tutti quando vengano tradotte nel lin­guaggio quotidiano. Solo allora funzionano da apripista per il mu­tamento sociale. E oggi viviamo in un periodo che vede un obnubi­lamento della speranza e incertezza circa ciò che ci attende. Di qui un minor peso della filosofia politica nella progettazione del futuro.

Alcune parole sulla globalizzazione. Troviamo traccia di questa pa­rola – o concetto, se si preferisce – sia in ambito marxista che liberal-democratico. La preoccupazione generale per i rapporti tra ricchi e poveri, negli scritti di Marx, travalica qualsiasi confine nazionale o barriera razziale. In ambito democratico, la questione centrale di­venta quella di una maggiore eguaglianza sociale che, allo stesso tempo, non scoraggi lo spirito imprenditoriale. E come si può pre­servare il primato della politica senza che ne risenta la crescita eco­nomica?

In entrambi i casi, si tratta di questioni che riguardano il genere umano in quanto tale, e non solo parti di esso. Il cuore della globa­lizzazione è che la situazione economica dei cittadini di uno stato nazionale sfuggono ormai al controllo delle leggi di quel particolare stato. Prima le leggi nazionali controllavano, anche a fini sociali, i movimenti di denaro all’interno dei confini. Ora non è più così. Non v’è modo di controllare che il denaro guadagnato o risparmiato in un Paese venga speso o investito entro i suoi confini.

Vi è una sorta di ristretta classe sovranazionale che prende le deci­sioni economiche più importanti, indipendentemente dalle legisla­zioni nazionali e, di conseguenza, dai voleri di qualsiasi elettorato. Ed è stato notato in molte occasioni che questo può condurre a forme di illegalità che i singoli governi sono incapaci di combattere. L’assenza di un governo mondiale comporta che gli interessi di tutti non possono essere tutelati. È interessante, allora, chiedersi se degli intellettuali portatori di una “cultura globale” – e vedremo poi quale senso dare a tale espressione – abbiano un ruolo, e se sì quale, nel combattere una simile situazione.

Il ruolo dell’intellettuale è di grande portata. L’intellettuale è un co­struttore di teorie, anche se non dovrebbe mai dimenticare le condi­zioni concrete in cui opera. Deve attirare l’attenzione sulla necessità di una politica globale, in grado di contrastare i privilegi delle oli­garchie. Dovrebbe anche drammatizzare i cambiamenti dell’economia mondiale che conseguono dal processo di globalizza­zione, e rammentare, senza stancarsi, che soltanto istituzioni politi­che globali sono in grado di contrastarne gli effetti perversi.

Il problema, insomma, non è quello di combattere la società globale, ma di dar vita ad una società globale giusta. Il termine “globalizza­zione” è stato negli ultimi anni caricato di significati negativi, è di­ventato una sorta di feticcio che riassume in sé i mali del mondo. Tutto questo è sintomo di grande confusione. Non si sottolineano a sufficienza gli aspetti positivi di un processo di globalizzazione cor­rettamente inteso. Non necessariamente globalizzare significa omo­geneizzare a forza. Non necessariamente globalizzare equivale ad eliminare differenze ed identità specifiche. Al contrario. Può voler dire, invece, dar vita ad una società mondiale in cui il rispetto di dif­ferenze ed identità diventi una precondizione di fattibilità.

Sono convinto che, pur su scala minore, il processo di unità europea rappresenti proprio un esempio di globalizzazione “virtuosa”. Chi può seriamente sostenere, oggi, che dentro l’unione c’è scarso ri­spetto per le identità nazionali italiana, olandese o polacca? Chi può seriamente sostenere che l’Unione non rispetta le differenze tra spa­gnoli, tedeschi e irlandesi? Credo nessuno, almeno se è in buona fede. Naturalmente tutti sappiamo che i problemi si complicano quando dal contesto europeo passiamo a quello mondiale. Ma que­sto non deve indurci ad abbandonare la speranza che, in un futuro di cui è impossibile delineare i contorni, lo stesso possa lentamente accadere su scala planetaria.

Ed è proprio su questo piano che gli intellettuali svolgono un ruolo chiave. Quando si parla, ad esempio, di fondamentalismo islamico, si dimentica spesso che nei Paesi in cui quel tipo di fenomeno è forte esistono gruppi di intellettuali che si battono, a rischio della vita, contro ogni tipo di chiusura. Questi intellettuali non vedono perché le differenze religiose debbano condurre alla prevaricazione degli altri. Ad essi dobbiamo essere molto grati perché il loro esempio ci ricorda che la speranza sopravvive anche nei contesti meno favore­voli.

Abbiamo veramente bisogno di rinunciare alla preservazione delle identità e delle differenze se ci muoviamo nella direzione di una po­litica e di una cultura globali? Molti ritengono di sì, e danno per scontato che la globalizzazione – intesa nel senso corretto – comporti l’annullamento di identità e differenze. Non è così. La protezione delle identità e delle differenze non ha bisogno di un tipo di politica speciale se ci muoviamo nella direzione di una globalizzazione in­tesa in senso corretto. In una società globale le identità vengono pre­servate gelosamente perché arricchiscono il quadro complessivo. In una società di quel tipo varrebbe la tesi di John Stuart Mill: ciascuno ottiene ciò di cui ha diritto, ma non deve impedire agli altri di otte­nere le stesse cose.

Noi tutti condividiamo, in quanto esseri umani, un’enorme quantità di conoscenze comuni. Certo ci sono anche molte differenze, ma non accade mai – a differenza di quanto sostengono alcuni filosofi – che vi siano linguaggi e visioni del mondo “incommensurabili”, cioè così diverse da precludere qualsiasi possibilità di confronto. Ha senso parlare di differenza solo quando esiste la possibilità di co­municare confrontando le nostre opinioni. Le differenze hanno senso solo sullo sfondo di un vasto insieme di credenze comuni, e non ci possono essere schemi concettuali radicalmente diversi.

Accettare la politica del maggior spazio possibile per la variazione diventa più semplice quando si ammette che non vi è alcuna fonte di autorità al di fuori del libero accordo tra gruppi. E il progetto di una cultura globale non deve certamente essere abbandonato. Esatta­mente in questa direzione si muoveva Paolo Michele Erede scri­vendo: “Le compatibilità non possono quindi verificarsi che in con­dizioni di razionalizzazione del fenomeno migratorio e in un ordi­namento sociale che garantisca innanzitutto il rispetto della persona e della dignità umana. Quindi, ‘Società multietnica’ e non ‘somma’ spersonalizzante e spoliatrice delle rispettive individualità” (Florile­gio, p. 71).

Ecco di seguito una breve descrizione dei lavori premiati, che costi­tuiscono i capitoli di questo volume collettaneo. Claudio Pestarino, nel saggio “I problemi della società multietnica”, analizza con grande puntualità e precisione i problemi della multietnicità, dap­prima introducendo utili precisazioni terminologiche, e in seguito analizzando il cosiddetto “scontro di civiltà” e il fenomeno della globalizzazione. Propone infine argomentate conclusioni e dimostra grande padronanza dell’argomento, come si evince anche dalla Bi­bliografia. Francesco Di Gregorio, nello scritto “La sfida del futuro: uno sguardo filosofico al destino dell’uomo”, tematizza il problema rifacendosi in particolare alle idee del filosofo Hans Jonas e ponen­dole a confronto con le parole di Paolo Michele Erede. Pregevole l’approfondimento della natura essenzialmente “comunicativa” de­gli esseri umani. Silvia Canevaro presenta un saggio lungo e ben ar­gomentato, “La compatibilità per una cultura dell’incontro in una società multietnica”, nel quale mette in rilievo l’inarrestabilità del processo multietnico, che mette in crisi la nozione di “apparte­nenza”. Sottolinea inoltre il ruolo delle agenzie educative e conclude analizzando il caso italiano. Luigi Catalano sviluppa il tema propo­sto facendo riferimento alle esperienze dei quartieri genovesi in cui il fenomeno dell’immigrazione è più rilevante, in particolare Sam­pierdarena. Prende infine in considerazione i problemi del mercato del lavoro. Carlo Calcagno presenta un saggio interamente dedicato al problema della circoncisione rituale nella società occidentale, di­mostrando come esso ponga una sfida culturale. Molte le notazioni interessanti sia dal punto di vista medico che culturale. Andrea San­giacomo conduce l’argomentazione facendo riferimento sia ad au­tori classici quali Omero e Platone, sia a filosofi contemporanei come Nietzsche ed Emanuele Severino. Analizza in particolare i problemi della società multietnica alla luce del nichilismo.




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