Quaderni della Fondazione Professor Paolo Michele Erede a cura di Michele Marsonet

Quaderno N. 1 – 2008. “I Problemi della Società Multietnica”
Numero monografico dedicato agli elaborati vincitori della Prima Edizione del Premio Professor Paolo Michele Erede

Luigi Catalano - I problemi della società multietnica.

Vincitore del Quarto Premio (Ex.Aequo)

1.    Introduzione

Federico è un ragazzo italiano che abita a Genova nel quartiere di Sampierdarena, il suo orologio è svizzero, le sue scarpe sono ameri­cane, il suo i-pod è giapponese, la sua auto è tedesca e i suoi mobili sono svedesi, eppure Federico ha paura degli stranieri!

Il senso di paura e l’ansia che ne conseguono sono il primo effetto di una società multietnica perché è molto più semplice credere che l’altro ti porta via qualcosa piuttosto che pensare che la sua presenza possa arricchire la nostra società.

La nostra è l’Età della globalizzazione e i suoi effetti si fanno sentire anche nella società civile, che non è più una comunità, ma vi sono tante comunità in una società sempre più incivile!

La nostra è la società nella quale culture differenti sono messe a contatto e dove il più delle volte si genera uno “scontro rifiuto” che crea quella sorta di clima di guerra che Federico sente palpabile nell’aria.

Nell’Età della globalizzazione anche la guerra è globalizzata, così che guerra non è solo in Iraq, non è solo in Afghanistan, ma è anche tra noi, nelle nostre case, nelle nostre strade, è la guerra di tutti i giorni, la guerra della vita quotidiana combattuta dall’Uomo co­mune, è la guerra abitudinaria, astiosa e rancorosa, è la guerra dell’intolleranza, del razzismo e del pregiudizio. È la guerra della coscienza di un popolo che si sente minacciato, è la guerra di un po­polo che rispolvera antichi valori da contrapporre all’integralismo islamico e per questo si fa integralista e fanatico cristiano.

Federico frequenta il quarto anno di ragioneria e nella sua classe c’è anche Carlos: ecuadoriano che ha un tatuaggio e i vestiti larghi e di­cono faccia parte di una banda!

Il padre di Federico ha intimato al figlio di non frequentare gli ecua­doriani, perché si sa, “con quella gente non si scherza” e…E il padre di Federico è affetto da quella malattia che si chiama pregiudizio, quello stesso pregiudizio che ha dovuto subire lui dai genovesi che quarantacinque anni prima proprio non potevano sopportare l’immigrazione che dal Sud Italia spostava un fiume di persone dalle campagne del Mezzogiorno al miraggio di un posto di lavoro nel triangolo industriale Milano – Torino – Genova. Il padre di Federico ha concretizzato quel sogno, ha lasciato la Sicilia e ha trovato posto all’Ansaldo dove ha lavorato sodo e dove ancora lavora sodo, ep­pure siciliano ha sempre fatto rima con mafioso perché pativa l’assimilazione ad uno stereotipo che non meritava e che oggi non meritano gli ecuadoriani, assimilati ad un altro stereotipo, quello delle gang giovanili e di una microcriminalità imperante.

Oggi il padre di Federico è italiano perché ci sono gli extracomuni­tari, ieri era solo un meridionale!  

2.    Fenomenologia di un quartiere  

Il Professor Erede in “Le compatibilità per una cultura dell’incontro”, distingueva tre spazi: lo spazio di vita, lo spazio sociale e lo spazio vissuto.

Qui di seguito proverò ad utilizzare le presenti categorie per appli­carle all’immigrazione che caratterizza maggiormente il quartiere di Federico. Non è oscuro a nessuno che la prima etnia di immigrati a Genova sia quella ecuadoriana[1] e non è oscuro che la maggior parte dei migranti risieda nel ponente cittadino e in particolar modo nel quartiere di Sampierdarena.

L’arrivo dei migranti sudamericani a Genova risale ai primi anni ’90, caratterizzandosi da subito come una immigrazione prettamente femminile. Sono le donne, infatti, che per prime arrivano in Italia dall’Ecuador richiamate da un mercato dell’assistenza agli anziani in continua espansione, specie nel capoluogo ligure: la città più vecchia d’Italia.

Dietro le badanti ecuadoriane però, c’è una famiglia: un marito e spesso più figli anche minorenni, una famiglia che spesso a distanza di non molto tempo segue la donna nel Paese di destinazione. La ne­cessità sociale di importare lavoratrici che svolgano un lavoro che la nostra società richiede e che non può soddisfare senza l’afflusso mi­gratorio, paga il costo delle inevitabili conseguenze che prima di tutto sono sociali.

Carlos è arrivato in Italia a un anno di distanza dalla madre che a Genova fa la badante assistendo una vecchia signora che lei chiama “la padrona”.

Carlos ha diciassette anni e appena arrivato era spaesato e disorien­tato da un Mondo così diverso dal suo e diverso in peggio!

Carlos ha barattato gli spazi aperti e solari e le tinte color pastello degli sfondi di casa per gli spazi angusti e dove filtra poca luce dei vicoli di Sampierdarena, dove il grigio, nelle sue infinite tonalità, la fa da padrone.

La famiglia in Ecuador è la classica famiglia patriarcale dove è l’uomo che porta i pantaloni e lo stipendio e la donna si dedica alla cura della casa. Da quando la famiglia di Carlos è arrivata a Genova però, i ruoli in casa si sono invertiti. Sua madre è fuori tutto il giorno, l’orario di lavoro di una badante è lunghissimo; suo padre invece è disoccupato e l’inattività lo deprime così che passa i suoi pomeriggi a guardare le soap in TV e a bere birra.

Carlos è lo spettatore di quelle scene e sente mancare i riferimenti culturali che erano stati quelli che avevano guidato il suo agire sino a quel giorno.

La madre è assente e non può badare ai figli, il padre non è più un modello comportamentale accettabile.

Il processo di disgregazione famigliare con il sovvertimento dei ruoli, sommato ad un ambiente, dove Carlos è costretto a vivere, sentito come ostile, creano nel ragazzo un vuoto di identità.

È per questo che Carlos sente il bisogno di raggrupparsi con altri ra­gazzi suoi coetanei con i quali crea un rapporto stretto che si carica di significati che molto spesso vanno al di là dell’importanza che la rete di amici riveste per i giovani[2].

Gli amici nel gruppo di Carlos sono tutti sudamericani, ma non sono tutti ecuadoriani, Victor è peruviano, perché spesso non è essenziale avere in comune la nazionalità, spesso è solamente sufficiente con­dividere la stessa lingua per parlare spagnolo fra di loro ed esclu­dere così gli italiani che a loro volta hanno già escluso gli stranieri.

Gli adolescenti italiani, infatti, tendono a legare con altri adolescenti italiani, magari della stessa età, magari dello stesso livello sociale e culturale.

La necessità per gli immigrati sudamericani adolescenti di aggre­garsi fra loro è una sconfitta delle politiche di integrazione adottate ad ogni livello di governo.

È perciò chiaro che se lo “spazio di vita” è lo spazio concreto del quo­tidiano, lo “spazio sociale” rappresenta l’insieme delle relazioni so­ciali spazializzate sia per un gruppo sociale che per un singolo indi­viduo e quindi è l’aggregazione tra pari coetanei e connazionali che sostituisce la famiglia ormai disgregata; mentre lo “spazio vissuto” è l’insieme dei luoghi frequentati dall’individuo, ma anche delle rela­zioni sociali che vi si svolgono e dei valori psicologici che vi sono percepiti e proiettati tanto che con “spazio vissuto” possono essere indicati tanto quelle attività come andare in discoteca o partecipare alle feste culturali organizzate dai rappresentanti delle organizza­zioni dei gruppi nazionali che diventano quasi forme ritualizzate dello stare insieme; che luoghi fisici come la Piazza della Commenda o il centro commerciale Fiumara a Sampierdarena, che diventano spazi urbani etnicizzati dove i giovani latini si sentono compresi ed accettati come latini, luoghi cioè, che vengono fatti propri in un’ottica di integrazione e di accesso e che hanno, quindi, un valore psicologico intrinseco.

3.    La società multipolare

La società moderna è la società della globalizzazione, aperta agli ap­porti di culture esterne e portata, entro un certo margine elastico, al sincretismo e quando succede si verifica il fenomeno “dell’incontro – accettazione”.

Quando l’elasticità al sincretismo si riduce, però, e si riduce in tutti quei casi in cui la società di accoglienza non tollera un comporta­mento diverso dal proprio o nel caso in cui esponenti della cultura ospite non siano duttili in modo da cooptarsi nella società, avviene il fenomeno dello “scontro- rifiuto”.

Prima di addentrarci nel vivo dell’argomentazione, però, è necessa­rio soffermarsi sulla qualità della società odierna che non è solo multiculturale, ma bensì “multipolare”, che è qualcosa di più e di più complesso, in quanto le differenze e le difficoltà di sincretismo si re­gistrano già all’interno della cultura italiana, indipendentemente dal fatto che ospiti o no culture straniere al suo interno.

Condivido la posizione del prof. Erede nell’asserire che la società moderna è la società culturale e che nella società culturale tutti gli uomini non pensano allo stesso modo e non conducono la loro vita secondo gli stessi imperativi morali, in quanto, aggiungo io, la so­cietà culturale è differente e altresì più complessa anche della società di massa ottocentesca divisa in classi; modello di società che pos­siamo considerare valido fino agli anni ’60 – ’70 del Novecento con la netta divisione fra chi aveva il capitale e le forze lavoro.

Con la globalizzazione e la smaterializzazione della ricchezza non è raro che i lavoratori partecipino al capitale[3], ma soprattutto non è raro che ci sia una frammentazione degli interessi all’interno della classe lavoratrice, in quanto non esiste più un'unica coscienza so­ciale, ma molte; così che ogni categoria all’interno di uno stesso ceto sociale, ricerca il maggior bene per se, non curandosi del bene delle altre categorie sociali in una prospettiva “categoricentrica”, che è as­similabile per quanto riguarda le categorie sociali all’erediano “et­nocentrismo” per le etnie e all’egocentrismo che, come scrive il Pro­fessor Erede, è alle autentiche radici della coscienza umana.

L’esempio di quanto detto può ben essere rappresentato come il caso dei lavoratori del settore alberghiero e turistico, che manife­stano per la chiusura di un impianto chimico perché inquina e de­turpa l’ambiente, in netto contrasto con i lavoratori, altrettanto sala­riati, dell’impresa chimica, che saranno alleati del “padrone” nel vo­ler tenere aperto l’impianto in quanto fonte di reddito.

È ovvio, quindi, che se già uno stesso ceto sociale non è più regolato da codici e ideali comuni a tutti i suoi membri e, come visto nell’esempio, i lavoratori dell’industria chimica non riescono a co­municare con i lavoratori del turismo, a maggior ragione la difficoltà di comunicazione si avrà tra gruppi etnici e tra culture diverse in quanto ognuna portatrice di istanze e valori differenti, così che l’erediano “homo communicans” diventa “l’homo incommunicans” e sa­rebbe la barbarie!

La difficoltà di comunicazione non dipende solo dalle differenze, peraltro superabili, di linguaggio, ma da differenze culturali che danno vita ad una varietà di sistemi di pensiero e ad una moltepli­cità di ideologie che già come notava il prof. Erede, portano alla svalutazione di questi stessi sistemi.

Un sistema per esistere, delinea ciò che è e ciò che non è; ciò che è vero e ciò che è falso; ciò che accetta e ciò che non può accettare.

Le discrasie e per questo lo “scontro – rifiuto”, si verificano, come ha ben detto il prof. Erede, quando “la società ricevente maggioritaria ed omogenea per lingua, tradizioni, comportamenti, ha difficoltà di comunica­zione con le varie minoranze etniche che non possono assumere il modello di comportamento monolitico”.

Nella definizione, quindi, si può riconoscere il problema “dell’homo incommunicans” e riconoscere uno “”scontro rifiuto” che avviene tra due sistemi così distanti fra loro da risultare non comunicanti perché a vicenda, ciò che accetta un sistema è ciò che non può accettare l’altro.

Il caso concreto di difficoltà di comunicazione tra due sistemi mi permette di introdurre un altro concetto ereditano: “l’etnologia giuri­dica”, che non dovrebbe essere limitata solamente allo studio delle consuetudini delle varie etnie come fatto statico, ma dovrebbe essere aperta dinamicamente a studi propositivi e ad ipotesi programmati­che.

Il condizionale in questi casi è d’obbligo perché il sincretismo giuri­dico, ovviamente, può esistere solo dove i sistemi non addivengono a “scontro – rifiuto”, ma realizzano un’ipotesi di “incontro – accetta­zione”.

Come dicevo poco sopra, però, un sistema, per esistere, delinea ciò che è e ciò che non è con frasi apodittiche che dettano le regole di comportamento che reggono la società.

Un esempio è: “l’uomo e la donna hanno pari diritti e doveri”. Nel no­stro ordinamento è la norma perché in questo modo è sentito dalla società civile.

Gli immigrati islamici, però, almeno quelli che “interiorizzano”[4], vi­vono una frase apodittica inversa, nella quale “le donne non hanno gli stessi diritti e doveri degli uomini, ed anzi, sono ad essi sottomesse”.

Nella Shari’a: la legge religiosa islamica, il matrimonio è contrattuale con il consenso delle parti. La donna non manifesta personalmente il suo consenso, ma lo fa attraverso un tutore matrimoniale mussul­mano che può essere il padre, un parente prossimo maschio o il wali, cioè il giudice.

Il Jabr, però, vale a dire il matrimonio imposto, è ancora esistente: è il padre che, discrezionalmente, decide del matrimonio della figlia. Questo potere, inizialmente senza limiti, è stato oggi ridimensionato, così che il Jabr non è più previsto nel Codice Civile marocchino, né in quelli tunisino e algerino, dove tuttavia si prevede che il padre possa costringere la figlia al matrimonio quando si teme una cattiva condotta da parte della ragazza.

Ugualmente, i rapporti tra i coniugi per la Shari’a sono di quanto più distante dalla concezione Occidentale. La donna, infatti, è sog­getta alla direzione del marito e sottoposta al suo potere correzio­nale. Il marito, inoltre, ha il diritto di decidere se e quali persone la moglie frequenterà al di fuori dei parenti stretti .

Le sperequazioni tra i coniugi non si fermano qui: nel Codice maroc­chino si dice che il marito ha diritto alla fedeltà ma la moglie non ha il medesimo diritto, tanto che per la Shari’a è ammessa la poligamia con il limite delle quattro mogli, anche se è pur vero che l’istituto è comunque in declino nell’Islam, sopravvivendo solo nel 10% dei matrimoni.

Ancora il codice marocchino (mentre è abolito in quello tunisino e in quello algerino), prevede l’istituto del ripudio (Talaq): vale a dire la facoltà di sciogliere il matrimonio, che è però solo del marito.

Per la donna è possibile, invece, chiedere il divorzio giudiziale (Tat­liq), ma solo in casi tassativi: per il mancato mantenimento, per ma­lattie non dichiarate, per abbandono del tetto coniugale, per sevizie fisiche, ma queste devono essere provate e comunque il Tatliq può essere chiesto solo dopo aver esperito un tentativo di conciliazione.

Per quanto riguarda la cura dell’educazione dei figli, il responsabile è il padre. Alla madre spetta la cura del bambino fino ai cinque anni. Tale custodia è però esclusivamente domestica, in quanto la madre non è padrona di istruirlo come vuole e non può portarlo lontano dal padre.

Al padre, o in mancanza, agli uomini della sua famiglia, spetta la tutela che consiste nel sorvegliare l’istruzione del bambino. La tutela per i maschi finisce con la pubertà, ma per le femmine dura fino al matrimonio consumato.

Si capisce, quindi, il dramma di Hina Saleem[5], la ventunenne pachi­stana sgozzata dal padre, dallo zio e sepolta nel giardino di famiglia perché fidanzata con un ragazzo italiano e perché intendeva vivere all’Occidentale, sia un esempio truce di “scontro – rifiuto” portato alle sue più amare conseguenze.

Il padre della ragazza era completamente chiuso nei suoi valori e re­sistente ad ogni possibile cambiamento[6], mentre la figlia, che voleva andare a convivere con il suo fidanzato italiano, procedeva verso una graduale assimilazione[7].

4.    Le metastrutture socio-spaziali

Nel paragrafo 2 si è provato ad applicare all’immigrazione che ca­ratterizza il quartiere di Sampierdarena, le tre categorie dello “spazio di vita”, dello “spazio sociale” e dello “spazio vissuto”, secondo le defi­nizioni contenute in “Le compatibilità per una cultura dell’incontro in una società multietnica”.

In questa sezione, invece, si allargherà lo spettro delle letture, ci­tando la dottrina che è pervenuta alle stesse soluzioni del professor Erede, al fine di meglio argomentare.

Armand Frémont definisce “l’espace de vie” come “l’insieme dei luoghi frequentati da un uomo o da un gruppo”; esso “si confonde con l’area delle pratiche sociali; si riferisce ad un’esperienza concreta dei luoghi”.

Lo spazio sociale, invece, sarebbe “costituito da una rete di luoghi fre­quentati da un insieme sociale e sostenuto dalle relazioni esistenti all’interno di questo insieme”, così che citando Di Meo[8], Frémont ar­riva alla soluzione che “la rete dei luoghi”, che può essere anche defi­nita come lo spazio strutturato, “appare come l’espressione di una rete di socialità”, che per simmetria non può che essere la società struttu­rata.

A tali concetti, bisogna aggiungere quello di “spazio vissuto”, che an­cora citando il Di Meo[9] “ricostruisce lo spazio concreto delle abitudini e lo supera con le immagini, le idee, i ricordi e i sogni di ciascuno”.

Un simile approccio è stato da un autore[10] in particolare, affrontato in modo molto problematico, introducendo il concetto delle “rappre­sentazioni”, definite come un prodotto e un processo di elaborazione psi­cologica e sociale del reale”.

Se queste sono le premesse, la conclusione, a mio avviso, non può che essere una sola: le tre tipologie di spazi non sono alternative ma complementari e quindi concorrono alla percezione del reale con una commistione di elementi oggettivi e soggettivi.

È questa la motivazione che fa ritenere che se è pur vero che la com­prensione di un luogo parte dall’espace de vie e cioè dal dato ogget­tivo della mera materialità, è anche vero che tale comprensione si ar­ricchisce del dato soggettivo, che si concretizza negli scambi sociali, (riconducibili allo spazio sociale) e agli scambi emotivi, alle imma­gini e ai concetti individuali (riconducibili allo spazio vissuto) che danno forma alla nostra rappresentazione del mondo sensibile e contribuiscono a conferirgli senso.

La commistione di elemento oggettivo e di elemento soggettivo, è alla base dell’etnicizzazione di alcuni luoghi della città.

Il caso Fiumara è già stato accennato. Nello specifico caso, i giovani immigrati, nella maggior parte ecuadoriani, si appropriano dello spazio – Fiumara con lo scopo di appartenere ad una rete sociale utile ad inserirsi nella società italiana, così che, dal punto di vista simbolico, vestire alla moda e frequentare i luoghi più conosciuti (Fiumara, Commenda ecc…) danno l’opportunità di essere ricono­sciuti e quindi di appartenere ad una società.

È altresì evidente, che in questi casi, i dati soggettivi degli scambi sociali, di quelli emotivi e dei concetti individuali sono preponde­ranti su quello oggettivo. Tale preponderanza, però, rischia di inne­scare un processo cognitivo e classificatorio che non esiterei a defi­nire perverso.

Come è stato ben detto[11], “dire ecuadoriano o ecuadoriano da poco arri­vato, può equivalere a parlare di esotismo, illegalità, delinquenza, disor­dine”.

In pratica, la nazionalità come indice e predittore delle caratteristi­che e dei comportamenti della singola persona, fa si che si radichino e si legittimino forma di discriminazione e di razzismo più o meno esplicito; e infatti sono proprio queste rappresentazioni che si ren­dono evidenti nell’uso dei differenti spazi urbani sotto forma di li­nee di confine tra nazionalità, gruppi etnici e culture.

Dopotutto, già il professor Erede, nel suo saggio di cui stiamo in di­scorso, aveva paventato il rischio di enclaves, “ovvero sacche territo­riali nelle quali vivono popoli estranei per cultura, tradizioni, religioni e co­stumi”; evidenziando come “alle soglie del Terzo Millennio [si ripresen­tano] rischi ed esperienze che parevano superate e si ripetono errori dalle conseguenze tragiche per i continui conflitti e per condizioni economiche caratterizzate da assoluta instabilità”.

Basterà solamente citare i recenti episodi di cronaca come la rissa con la polizia scoppiata nella chinatown milanese[12] o i casi di ordine pubblico di gran lunga più gravi, nelle banlieu francesi[13], per com­prendere la gravità della situazione.

Approfondiamo, quindi, il processo cognitivo e classificatorio e chiediamoci: cosa vuol dire straniero e, segnatamente nel nostro caso specifico, ecuadoriano per il cittadino genovese medio? E so­prattutto: cosa comporta?

Si tenterà di schematizzarne il senso in cinque punti.

1.      La condizione di giovane sudamericano, specie se ecuadoriano, diviene predittrice di comportamenti devianti

2.       La socialità fra i gruppi di latinoamericani viene riletta come un fenomeno associato alle bande e quindi ad attività devianti e potenzialmente pericolose per i cittadini. Tratti somatici, lingui­stici e di abbigliamento divengono a loro volta predittori di de­vianza e generatori di allarme sociale negli spazi pubblici.

3.      Si incrina la discriminazione positiva di cui godevano le donne la­tino – americane nel lavoro domestico e nei servizi di cura.

4.      Le pratiche legate al fenomeno delle bande: piccole rapine, furti, risse, atti di vandalismo o di violenza gratuita, diventano per i membri delle stesse, atti comunicativi attraverso cui affermare un potere simbolico nello spazio pubblico e nei mondi giovanili dei latinoamericani.

5.      Muta l’operare delle istituzioni e in particolare il lavoro di poli­zia nella sua quotidianità, fatta di controlli, fermi, concessione di permessi, attraverso la generazione di nuovi soggetti bersaglio come forma di risposta alle campagne stampa in atto e come forma di allentamento dell’allarme sociale, che comunque esiste.

Tale processo cognitivo e classificatorio, nelle città può avere solo una via di sfogo, che si concretizza nella segregazione residenziale e sociale di gruppi etnici, così che lo spazio possa venire considerato come il prodotto della differenziazione sociale.

Richiamando il concetto di “enclaves”, i gruppi di individui condivi­dono degli spazi, ognuno con la propria cultura, le proprie aspira­zioni, relazioni e traiettorie di vita.

Il risultato di questi molteplici fattori, eventualmente corretti ed amplificati dall’azione dei pubblici poteri, produce una sorta di divi­sione urbana.

Altri fattori, poi, come l’ineguale accesso alle diverse risorse socio – economiche, possono aiutare a mantenere e sviluppare la segmenta­zione dei mercati del lavoro e dell’alloggio, cristallizzando delle po­larizzazioni residenziali e creando una segregazione specie per gli stranieri.

Qui di seguito verranno indicati i quattro fattori che, a mio parere, regolano la scelta di localizzazione, creando un modello di appro­priazione dello spazio e così facendo concorrendo a creare fenomeni di segregazione.

1.      Fattori storici: se le prime migrazioni di un gruppo sono state fatte verso una zona in particolare, è presumibile che questa orienterà le migrazioni successive nel tentativo di ricreare pic­cole comunità all’interno di quella ospitante, al fine di mante­nere l’uso della lingua di originare e preservare le tradizioni. (Esempio: se le prime migrazioni di ecuadoriani sono state indi­rizzate al quartiere di Sampierdarena e più specificatamente in alcune zone del quartiere come via Sampierdarena, piuttosto che lungomare Canepa, piuttosto che via Buranello, è presumibile che le migrazioni successive abbiano scelto come destinazione lo stesso quartiere e possibilmente le stesse strade).

2.      Fattori economici: ovvio sarà che il migrante che arriva a Genova in cerca di un lavoro e con scarsa disponibilità di denaro, si in­stallerà in un quartiere operaio della città, dove gli affitti e il co­sto degli appartamenti siano inferiori. Un appartamento in via Buranello o al Campasso, ancora a Sampierdarena, non ha cer­tamente lo stesso costo di uno in via del Commercio a Nervi.

3.      A tale considerazione, si sommano i fattori politici, come può es­sere la scelta di costruire in un determinato quartiere delle case popolari, che certamente attireranno utilizzatori poco abbienti.

4.      Da tenere altresì in considerazione, sono i fattori d’accesso ai ser­vizi e alle infrastrutture: la scelta dell’alloggio, infatti, può essere fatta in funzione della mobilità e della ricerca di facilità d’accesso al posto di lavoro o servizi principali, soprattutto se non si di­spone di un mezzo di trasporto privato. In questo senso, ancora una volta, il quartiere di Sampierdarena sembra l’ideale: servito da una stazione ferroviaria che, con i treni locali, collega il centro alla periferia e da una molteplicità di linee AMT.

Ancora nell’ottica di approfondire il rapporto fra individuo e territo­rio, è necessario introdurre il concetto di metastruttura socio spa­ziale”.

Tale concetto è riconducibile, tanto per il professor Erede, quanto per il Di Meo, al concetto di spazio vissuto. Non sono trascurabili, però, le differenze. Il prof. Erede è più preciso del Di Meo nel riferire come la metastruttura socio – spaziale sia rappresentativa “di sog­getti endogeni, allogeni e di transito organizzati o no in gruppi sociali e ter­ritoriali, spontanei o strategici, che corrispondono a forme idealmente vi­venti di configurazioni”.

La definizione erediana appare più completa, perché con quell’”organizzati o no in gruppi sociali”, sembra prendere in conside­razione il rapporto che il singolo individuo ha con l’ambiente, ma anche il rapporto che con l’ambiente ha un gruppo sociale dato.

La definizione del Di Meo, invece, appare manchevole di tale se­condo rapporto in quanto definisce la metastruttura socio – spaziale come “l’insieme di strutture, spaziali e sociali, che legano l’individuo al suo ambiente territoriale”.

Da considerare, però, è come entrambi gli autori usino la meta­struttura socio – spaziale per passare dal dato psicologico a quello politico o come dice il prof. Erede, “a quelle forme più oggettive del ter­ritorio regionale che in parte rispondono all’ideologia ed al potere politico”.

Se infatti, per il Di Meo, “il concetto di metastruttura indica che esiste un sistema regolatore, di origine sociale o socio – territoriale, ma anche psico­logica, che crea per ciascuno l’unità del suo spazio”; la metastruttura so­cio – spaziale raggruppa due entità: la prima che l’autore definisce spazio sociale ruvido, prodotto dalla natura e dalla storia e la se­conda, costituita dallo spazio delle circoscrizioni amministrative co­struito dal potere.

Ugualmente, il prof. Erede riconosceva come le metastrutture socio – spaziali corrispondessero a forme idealmente viventi di configura­zioni che tendono a costituire:

1.      Le aree dell’abitare, come i centri di convivenza, i parenti, gli amici, i vicini, i colleghi di lavoro.

2.      La formazione socio – spaziale intermedia, che si sviluppa a li­vello di regione.

3.      Le formazioni socio – spaziali superiori: nazioni, federazioni o con­federazioni di Stati.

5.    Un approccio multifocale alle problematiche della società multietnica

La convivenza di una pluralità di etnie in uno stesso territorio solle­vano innumerevoli problemi che investono svariati piani.

Per questa ragione sono svariati gli ambiti di studio che sono coin­volti nell’analisi del fenomeno “società multiculturale”, delle sue affe­zioni e della sua sintomatologia.

Da qui l’esigenza di un approccio multifocale, teso a considerare lo stesso oggetto di studio osservato da angolazioni diverse, serven­dosi di strumenti diversi.

Tali strumenti sono la sociologia e la demografia, che studiano la manifestazione e lo sviluppo del fenomeno immigratorio in gene­rale: identificando le aree di provenienza, la localizzazione degli in­dividui o dei gruppi e le condizioni di vita; ma anche l’antropologia culturale e l’etnologia, che approfondiscono le concezioni etico – re­ligiose e gli usi dei diversi popoli; la psicologia, che studia i pro­blemi dello sradicamento dai luoghi di origine e dell’impatto con culture e ambienti diversi; la medicina, che evidenzia l’epidemiologia delle patologie più diffuse o che hanno più probabi­lità di diffondersi considerando tanto le patologie di importazione, ossia quelle importate dai luoghi di origine, quanto le patologie co­siddette da disagio e degrado o comunque definite di acquisizione, dovute alle diversità climatiche e nutrizionali, alle precarietà delle condizioni di vita, allo stress psichico del cambiamento.

Tali strumenti, poi, vanno coordinati e regolati tenendo sempre pre­sente il quadro legislativo internazionale e nazionale ed evitando l’insorgere di antinomie tra le abitudini di vita della popolazione immigrata e il corpus normativo del Paese ospite.

A questo riguardo, un discorso particolare merita la tutela della sa­lute: bene inalienabile tutelato dalle Convenzioni internazionali come dalla nostra Costituzione. L’accesso all’assistenza pubblica di base, infatti, deve essere garantita a tutti: agli italiani come agli stra­nieri essendo un diritto individuale e al contempo collettivo, vista la necessità di tutelare la salute di ogni individuo, indipendentemente dall’etnia e allo stesso tempo garantire la salute della comunità. (Esempio: sarebbe diritto dell’individuo di origine africana e immi­grato in Italia, essere curato dalla febbre malarica contratta nel Paese d’origine, ma anche diritto della comunità italiana di evitare il dif­fondersi della malattia).

È questa la ragione per cui ritengo non sia un’invadenza della sfera privata, ma bensì un utile strumento a tutela della salute pubblica, prevedere indagini diagnostiche ed eventuali vaccinazioni, come anche l’obbligo di permanenza in stato di quarantena per i cittadini stranieri che chiedono di entrare in Italia.

Il problema, se è così risolvibile per quanti sono immigrati regolari nel nostro Paese, non lo è altrettanto per gli immigrati clandestini per i quali la legge non prevede il diritto all’assistenza sanitaria pubblica.

La lacuna normativa però, è facilmente colmabile dalla deontologia medica; dopotutto sono doveri del medico quelli di curare il malato e al contempo di rispettare ogni paziente, facendo attenzione ai suoi costumi e al suo senso del pudore.

Quindi, se la legge italiana può essere integrata asserendo che vi è diritto d’accesso all’assistenza pubblica di base anche per gli immi­grati clandestini, è altrettanto vero che, ove possibile, il rapporto tra l’operatore sanitario e il paziente deve rispettare la dignità di ogni uomo nella sua specificità culturale e questo potrebbe ad esempio voler significare che sarebbe necessario un medico donna per visi­tare una donna musulmana che si reca al pronto soccorso.

Altrettanto vero, però, è che il rispetto della specificità culturale non può certamente essere contra – legem, così che non può essere in contrasto con i principi di democrazia e di laicità dello Stato, né con l’esigenza bioetica fondamentale di tutelare l’integrità psico – fisica dell’individuo nel rispetto della salute e ai fini della sua promo­zione.

Questa quindi la ragione per cui certamente è necessario condivi­dere l’orientamento del Comitato Nazionale per la bioetica quando bolla come irricevibili le richieste rivolte al Servizio Sanitario Nazio­nale di procedere a mutilazioni o a lesioni del corpo umano con fi­nalità che non sono terapeutiche, ma meramente religiose.

6.    Il mercato del lavoro

Senza pretesa di esaustività, il presente saggio ha già affrontato al­cuni dei problemi tipici della società multietnica, come la costitu­zione delle cosiddette “enclaves etniche”, che creano sacche territoriali nelle quali vivono popoli estranei per cultura, tradizione, religione e costumi al resto della società ospitante e pensabili come polarizza­zioni residenziali che creano una segregazione per gli stranieri.

Altresì si è trattato di fenomeni di rilevante interesse per la sociolo­gia delle migrazioni come è quello della devianza, mostrando la ge­nesi e le ragioni sociali della delinquenza giovanile che si organizza in bande.

Per ultimo si è trattato delle discrasie tra usanze degli immigrati e le norme italiane con speciale attenzione per il diritto alla salute; ma un simile discorso si è tentato di fare anche nel paragrafo 3, quando si è introdotto il concetto di etnologia giuridica e si è stabilito che un sistema, per esistere, delinea ciò che è e ciò che non è con frasi apo­dittiche che dettano le regole di comportamento che regolano una società.

In questa sede, infine, è necessario fare qualche cenno al mercato del lavoro per renderci conto come anche in questo caso si potrà parlare quantomeno di segregazione razziale, se non addirittura di sfrutta­mento della minoranza etnica da parte della maggioranza.

In letteratura si è persino parlato di “specializzazioni etniche”, come se un uomo, solo perché appartenente ad una data etnia, sia partico­larmente portato a svolgere una determinata tipologia di lavoro. (Come a dire: le badanti sono extracomunitarie, quindi se una extra­comunitaria sta lavorando, dovrà fare certamente la badante).

A parte l’evidente impostazione razzista ed arbitraria di un concetto come quello delle “specializzazioni etniche”, si può però ben dire che se non è vero che tutte le extracomunitarie devono necessariamente fare le badanti, è pur vero che la stragrande maggioranza, se non addirittura la totalità delle badanti, sono extracomunitarie.

La ragione è quantomai ovvia: gli immigrati svolgono lavori che i lavoratori locali si rifiutano di svolgere. Da questa considerazione si potrà quindi muovere per sostenere la tesi che la manodopera im­migrata che entra sul mercato del lavoro italiano non è sostitutiva o concorrenziale rispetto alla manodopera locale, come spesso si sente dire, ma è ad essa complementare.

In pratica, il modello dello stato di fatto che sto sostenendo prevede due mercati del lavoro distinti: uno per i lavoratori locali ai quali sono offerte tutele e garanzie e ai quali sono richieste prestazioni di lavoro che potremmo definire di serie A; ed un altro riservato ai la­voratori immigrati ai quali, invece, sono richieste prestazioni di la­voro che la manodopera locale rifiuta e che per questo potremmo definire di serie B, se non addirittura di serie C, considerando le ga­ranzie deteriori e l’assenza di tutele sociali.

Se questo modello risultasse confermato dalla realtà, è quindi ovvio che non esisterebbe una vera concorrenza tra lavoratori autoctoni e lavoratori immigrati, ma potrà senz’altro innescarsi un meccanismo di concorrenza interno al mercato del lavoro riservato agli immi­grati, in quanto gli ultimi arrivati (pressati dal bisogno e per questo disposti a lavorare in condizioni addirittura peggiori dei loro colle­ghi immigrati già stabilizzati), rimpiazzeranno gli altri immigrati nelle posizioni più basse della gerarchia occupazionale.

7.    Conclusioni

A conclusione di questo saggio avrei voluto poter dare la ricetta per curare le malattie della società multietnica e spiegare la strada per addivenire alla cultura dell’incontro prospettata dal professor Erede.

Non sono, però, così presuntuoso dal discostarmi dalla soluzione proposta dal professore e pertanto mi limiterò a conformarmi al suo pensiero, quando spiega chiaramente come ritiene che più il grado di cultura in una persona sia elevato, più è facile la possibilità di in­tese basate su scambi culturali che stimolino alla creatività e alla collaborazione costruttiva; mentre nei casi in cui il grado di istru­zione è meno sviluppato, predominano le abitudini di vita, modelli atavici di comportamento, rifiuto di tutto ciò che è diverso e per­tanto prevalgono le concezioni integralistiche.

In questa sede però, non credo di fare torto al professore, se provo a portare il suo pensiero su un altro livello: spostando l’attenzione non sul singolo e nemmeno su una etnia, ma sul popolo formato da popoli.

Il processo di integrazione europea fa pensare ad un lento processo di incontro – accettazione; dopotutto da semplice organizzazione internazionale, l’Unione Europea, nel corso degli anni, ha gradual­mente acquisito numerose prerogative tipiche di una federazione, con il progressivo trasferimento di poteri e di sovranità degli Stati membri agli organismi comunitari.

Lo stesso motto dell’UE: “uniti nelle diversità”, fa pensare ad una so­cietà multietnica dove le differenze e le peculiarità culturali dei po­poli siano salvaguardate ma che nello stesso tempo si lavori per dare una sola fisionomia alla società del domani.

È l’UE la società multietnica del futuro, un futuro nel quale il pro­cesso di integrazione sarà ben più avanzato della situazione iniziale.

L’integrazione comunitaria è il vero metro con cui misurare il grado di cultura dei popoli, quella cultura dell’incontro che cresce con il grado di responsabilità e che è inversamente proporzionale ad ob­solete concezioni integralistiche.

Era il 1950 quando la dichiarazione di Schuman istituiva la CECA, era il 1957 quando i Trattati di Roma istituivano la CEE. Era un grande passo avanti, ma il processo di integrazione era solo agli al­bori. Dovranno passare molti anni, però, ben quaranta, perché gli accordi di Schengen superassero le frontiere.

L’Europa del 1997 era un’Europa con un grado di cultura superiore a quella del ’57 e ancora maggiore è la cultura dell’incontro che il 29 Ottobre 2004 porta all’adozione del Trattato che istituisce una Co­stituzione per l’Europa.

Come spiegare allora il referendum popolare francese del 29 Maggio 2005, quando il 54,7% dell’elettorato ha scelto di non sottoscrivere il Trattato?

Dov’era la cultura dell’incontro? Dov’era la consapevolezza e la collaborazione costruttiva?

Lo schema delineato non è valido? Funzionava solo per gli individui come diceva il professor Erede e non può funzionare invece per un popolo?

La risposta è No!

Già il professor Erede riconosceva come nella società multietnica si possa assistere all’apparente contraddizione della volontà di etnie di riappropriarsi di territori, di ristabilire confini, di riscoprire patrie, di conservare e sviluppare tradizioni.

Forse nel 2004 il grado di cultura dei popoli dell’UE non era così elevato per un progetto così ambizioso, ma c’è tempo: forse fra qua­rant’anni l’Europa sarà quella società multietnica del futuro, quella società che ha nel DNA la cultura dell’incontro.

Oggi l’Europa ha un solo compito e mi piace credere sia stato il pro­fessor Erede a darglielo, quando proprio nella pagina iniziale di “Le compatibilità per una cultura dell’incontro in una società multietnica”, esortava a non rifugiarsi nella nicchia del presente per timore del passato e diffidenza del futuro.

 



[1]     I dati aggiornati al gennaio 2005 della Questura di Genova parlano di 9902 ecuadoriani distaccando di molto le altre etnie presenti in città: Albania: 3726; Marocco: 2840; Perù: 1774; Romania: 1043; Cina: 1000; Senegal: 694; Sri Lanka: 644; Ucraina: 569; Tunisia 502.

[2]     Tali aggregazioni sono pensabili come le Erediane aree dell’abitare, cioè formazioni socio – spaziali più piccole: centri di convivenza, parenti, amici, vicini, colleghi di lavoro, membri di uno stesso raggio associativo.

[3]     Si pensi alle golden share e alle azioni del dipendente.

[4]     Il riferimento è alla prima categoria delle cinque condizioni psicologiche erediane. “L’interiorizzazione è la forma più tenace e più sottile: il soggetto fa il suo sistema di valori dell’ambiente in cui si trova e resiste ad ogni altro possibile cambiamento nella convinzione di essere più vicino alla realtà fisica e sociale”.

[5]     Il fatto di cronaca è del 17/08/2006.

[6]     È ancora un esempio di interiorizzazione.

[7]     È la condizione psicologica n°5, che il prof. Erede spiegava essere realizzabile anche con matrimoni misti.

[8]     DI MEO G. “L’homme, la societé, l’espace”. Ed. Economica, Parigi 1991 e DI MEO G. “Géographie sociale et territoires”, Nathan, Parigi, 1998.

[9]     DI MEO G. “Géographie sociale et territoires”, Nathan, Parigi, 1998

[10]    JODELET, in DI MEO G., “Géographie sociale et territoires”, Nathan, Parigi, 1998

[11]    TORRE A. Il fantasma delle bande a Genova e i latinos”, per VIII Convegno Nazionale dei Centri intercolturali Reggio Emilia 21 Ottobre 2005.

[12]    Il fatto di cronaca è del 12/04/2007. La protesta nella comunità della chinatown milanese, sarebbe partita da una multa inflitta a una commerciante che scaricava merci fuori orario dalla sua auto, nella quale si trovava anche una bimba di tre anni. La donna ha reagito e a darle man forte sono arrivati numerosi connazionali che hanno tentato di aggredire il vigile. Il reparto mobile giunto sul posto ha caricato un centinaio di cinesi che rispondevano lanciando bottiglie contro le forze dell'ordine. Alcuni hanno tentato di ribaltare una volante. Un testimone ha riferito di aver visto un poliziotto in borghese estrarre la pistola e colpire una donna alla testa, fatto poi smentito dalla polizia. La donna multata, portata via dai vigili, insieme alla bambina che era con lei nell'automobile, è stata denunciata per resistenza a pubblico ufficiale, posta in stato di fermo e rilasciata dopo alcune ore. La commerciante si è poi recata al pronto soccorso del Fatebenefratelli per essere visitata.

[13]    Mi riferisco agli episodi di disordine che hanno caratterizzato il Novembre del 2005 con i giovani immigrati di seconda generazione che si sono dati a devastazioni e saccheggi per le strade di una Francia che non ascoltava e nemmeno, forse, poteva capire le esigenze di quella parte di concittadini.




quaderno_01-2008       Indice del Quaderno N. 1 – 2008