Quaderni della Fondazione Professor Paolo Michele Erede a cura di Michele Marsonet

Quaderno N. 1 – 2008. “I Problemi della Società Multietnica”
Numero monografico dedicato agli elaborati vincitori della Prima Edizione del Premio Professor Paolo Michele Erede

Silvia Canevaro - La "compatibilità" per una cultura dell’incontro in una società multietnica.

Vincitore del Terzo Premio

 

1.    Verso la società multietnica. Un processo inar­restabile


La frase di apertura del saggio di Paolo Michele Erede, intito­lato “La compatibilità per una cultura dell’incontro in una società multiet­nica”, mi sembra cruciale per sviluppare una riflessione sulla possi­bilità di una coesistenza pacifica e costruttiva nell’odierna so­cietà multietnica. L’autore infatti afferma:

 

Ieri si guardava al passato per prevedere l’avvenire, oggi è preferibile interrogare l’avvenire per organizzare il presente.

 

Questo assunto è perfettamente in linea con le previsioni di emeriti sociologi, demografi ed esperti di statistica: le persone si spostano con sempre maggiore facilità e appare indubbio che nell’arco di qualche decennio questa tendenza subirà un vertiginoso incremento, tenuto conto che il tasso di crescita dei Paesi più poveri è in vertigi­nosa crescita, mentre quello delle nazioni economica­mente svilup­pate subisce una costante flessione: insomma la pro­spettiva più pro­babile per il prossimo futuro è quello di una sempre più massiccia immigrazione dei più poveri verso le nazioni più ric­che, con la con­seguente contaminazione di razze, costumi e culture.[1]

Tutto ci porta a prevedere l’avvento ormai prossimo di una “società meticcia”: una prospettiva paventata da alcuni ma che biso­gna im­parare a comprendere e accettare, assumendo un costruttivo cam­biamento di prospettiva nella direzione di una maggiore aper­tura verso quanto di buono può portare con sé l’Altro, il Diverso. O quantomeno per arrivare a comprenderne le categorie concettuali e le abitudini di vita eliminando così ogni possibile fonte di pregiudi­zio, emarginazione o scontro.

In un’intervista[2] rilasciata al Corriere della Sera il 6 giugno del 2000 il medievalista francese J. Le Goff ha dichiarato che la ricchezza cultu­rale dell’Europa non deriva dalla purezza, bensì dalla mesco­lanza tra diversi gruppi umani:

 

L’Europa nasce dalle migrazioni e dalle ibridazioni che ne sono derivate, ed è mia convinzione che queste, nel passato come probabilmente nel futuro, siano caratteristica essenziale dell’Europa e della sua civiltà. L’Europa non è un prodotto della geografia, sebbene i dati geografici, elaborati dagli uo­mini e dalla storia, abbiano avuto un ruolo importante nel co­stituire la sua identità e nell’impatto dei fenomeni interni ed esterni: migrazioni e peregrinazioni, apertura delle frontiere terrestri e apertura regolata di quelle marittime, predomi­nanza di pianure e spazi fertili favorevoli alle colture di cereali e preponderanza di clima temperato.

 

Si tratta, lo sottolineiamo ancora, di una tendenza inarresta­bile, di una realtà ormai imminente di cui dobbiamo prendere co­scienza per prepararci, nel presente, ad affrontare nella maniera più costruttiva e indolore possibile il futuro di una “società meticcia” o “creola”, per usare le definizioni di alcuni autorevoli autori: R. Galli­sot e A.M. Rivera, ad esempio, in Pluralismo culturale in Europa par­lano di “mé­tissage[3] culturale di massa” che produce sincretismi e so­stengono che contaminazioni, mescolanze e ibridazioni sono la norma nel processo di formazione delle culture, ieri come oggi.

Il linguista A. Gnisci, nel testo Creoli, meticci, migranti, clande­stini e ri­belli,[4] si spinge a scrivere che:

 

Meticcio è anche l’uomo/donna del Nord che migra nel Sud di se stesso e decide di farsi Sud, di diventare il Sud che resiste e si oppone al Nord del Nord.

 

E ancora:

 

Il migrante è anche il miglior testimone e il miglior narratore dei nostri tempi.

 

La trasformazione della nostra società in una realtà multietnica è un evento storico che incontra molte resistenze e genera irrazionali paure nelle persone. Tuttavia, proprio perché si tratta di un processo storico, è inevitabile ed è necessario imparare ad affrontarlo, supe­rando a rigor di logica quei blocchi emotivi e quelle paure infondate che precludono l’autentico “incontro” con l’Altro dando troppo spesso luogo allo “scontro”.

Come ci ricorda lo scrittore U. Eco,[5] a differenza della civiltà greca fondata sulla polis che rinvia a un’etnia dai confini mobili, la menta­lità latina è per sua natura ossessionata dall’idea di confine. Se­condo la tradizione Romolo traccia un confine e uccide il fratello Remo perché non lo rispetta; successivamente il diritto romano si fonderà proprio sul concetto di territorialità da difendere con le un­ghie e con i denti da possibili aggressori. Solo chi vi appartiene per diritto di nascita (lo jus sanguinis) è parte della civitas. Scrive Eco:

 

Il problema è che nel prossimo millennio l’Europa sarà un continente multirazziale o, se preferite, colorato. Questo con­fronto (o scontro) di culture potrà avere esiti sanguinari e sono convinto che in una certa misura li avrà, saranno ineliminabili e dureranno a lungo […] È esistito un patrizio romano che non riusciva a sopportare che diventassero cives romani anche i galli, o i sarmati, o gli ebrei come san Paolo, e che potesse sa­lire al soglio imperiale un africano, come è infine accaduto. Di questo patrizio ci siamo dimenticati, è stato sconfitto dalla Sto­ria.

 

Quello dell’appartenenza costituisce oggi un problema più ur­gente da risolvere di quello, certamente più antico, della giustizia distri­butiva. La soluzione della questione migratoria costituisce una prio­rità assoluta rispetto alla ben più vasta e complessa problema­tica della giustizia sociale. Ma in che cosa consiste esattamente la nega­zione del diritto d’appartenenza nei confronti dell’homo mi­grans? Consiste non tanto nel negare al migrante sussidi o servizi, ma piuttosto nel negargli la dignità e la stima di sé. Il che avviene tutte le volte in cui si sottopone il migrante a politiche sistematiche di svalutazione e degradazione della dignità umana. Secondo M. Wal­zer si va oggi ricreando, nelle nostre società avanzate la diffe­renzia­zione dell’antica Atene tra cittadini a pieno titolo e meteci, os­sia i la­voratori stranieri presenti in città e tollerati in quanto utili, ma sprovvisti dei diritti riconosciuti agli altri cittadini.

È evidente come il processo di globalizzazione[6] che stiamo vi­vendo interessi non solo lo spostamento di capitali, ma anche quello delle persone. Come le imprese investono nei paesi che ga­rantiscono costi del lavoro più bassi e profitti più alti, non si capisce perché i singoli individui non possano spostarsi laddove le condi­zioni di vita ap­paiono loro migliori. A queste persone costrette a immigrare per l’impossibilità di costruire un futuro dignitoso, per sé o per i propri figli, nel proprio paese d’origine si aggiungono anche quanti deci­dono liberamente di spostarsi per vivere un’esperienza diversa o as­secondando le ragioni del cuore.

La conseguenza più evidente di questo processo – oramai in atto da quasi un trentennio – è la nascita di vere e proprie società multiraz­ziali, soprattutto se si considera la composizione etnica di tutte le grandi metropoli. L’Italia, data la sua posizione geografica protesa verso il Mediterraneo, da diversi anni a questa parte è inte­ressata sempre di più, e sempre più drammaticamente, da flussi mi­gratori di cittadini in fuga da guerre civili, etniche e religiose che appro­dano in condizioni igienico-sanitarie disperate sulle nostre co­ste.

Di fronte a un fenomeno ormai inarrestabile, si può scegliere di as­secondarlo cercando di consolidarne i punti di forza e conside­ran­done i possibili vantaggi che ne possono derivare a tutto il ge­nere umano. Viceversa, chi non accetta la Storia – in questo caso la for­mazione di una società multirazziale – si renderà responsabile d’inutili sofferenze a causa della testardaggine con la quale avrà combattuto contro un futuro inevitabile. Dobbiamo, quindi, adope­rarci per costruire un società pluralista e tollerante. Le nostre società occidentali del nuovo secolo e del nuovo millennio vivono la con­traddizione del confronto con la diversità: sono sempre più multiet­niche, multiculturali e multireligiose, ma al contempo questa etero­geneità non si è ancora ricomposta in un sereno pluralismo piutto­sto, troppo frequentemente, si traduce in un sanguinoso teatro di conflittualità e incomunicabilità tra culture diverse.

Per citare ancora il professor Erede:

 

Quando culture differenti sono messe a contatto, avvengono sempre reciproche sensibilizzazioni che conducono a “scontro-rifiuto” come a “incontro-accettazione”.

 

Il primo caso si verifica più frequentemente sul piano delle ideologie e delle convinzioni politiche, morali e religiose, mentre il secondo coinvolge gli aspetti più pratici dell’esistenza quotidiana degli indi­vidui producendo reciproche e feconde contaminazioni nella sfera dell’alimentazione, dell’abbigliamento ecc.:

 

La conoscenza sia da parte degli ospitanti sia da parte degli immigrati delle rispettive culture facilita certamente il rap­porto interetnico, giacché consente una rispettiva decodifica dei linguaggi dei comportamenti, dei costumi, da cui deriva – necessariamente – una maggiore tolleranza.

 

La presenza degli stranieri nelle nostre città deve farci ripen­sare, so­stiene con determinazione Erede, alla nozione stessa di “straniero” in un mondo sempre più unificato, come a quella di “cittadinanza”.

Riconoscere nell’altro sempre e comunque un valore significa tolle­rare le differenze, coltivandole. Il riconoscimento dell’altro come valore ha come proprio presupposto il bisogno dell’altro da cui cia­scuno è costituito, dando un senso all’uomo. Il cittadino euro­peo ha trovato oggi il proprio orizzonte di identificazione nel mo­dello di civiltà elaborato dalla società occidentale-industrializzata, concepito come perfetto e appetibile da tutti. Occorre in questa fine di millen­nio ritrovare una maggiore modestia intellettuale e risco­prire una “mentalità nomade”: disponibilità al mutamento, al supe­ramento di qualsiasi confine territoriale per vivere una convivialità nelle diffe­renze, partecipare tutti alla mensa del patrimonio comune su un piano di pari dignità. La pari dignità significa condivisione di biso­gni umani essenziali e il loro soddisfacimento solidaristico, a comin­ciare dai bisogni primari di quanti si trovano in una condi­zione di maggiore necessità.

Il riconoscimento dell’altro come valore implica che ci si im­pegni in un’importante opera di tutela dei diritti di cui ogni uomo è porta­tore. Il primo assunto della teoria della comunicazione, “È im­possi­bile non comunicare”, può essere tradotto in questo caso come “È impossibile non essere in relazione”: ciascuno di noi infatti ha bi­so­gno degli altri uomini per essere veramente se stesso. Da quando nasce a quando muore, l’uomo ha bisogno di essere inserito in una rete di relazioni che lo fanno sentire vivo e partecipe. Tagliare la re­lazione equivale ad annullare l’uomo in ciò che ha di più sacro e di più intimo.

Nel contesto della nostra cultura egocentrica, in cui vige il principio dell’autonomia, bisogna cominciare a riaffermare con forza il princi­pio dell’interdipendenza. A tale scopo dobbiamo mettere in atto un movimento di decostruzione del nostro abituale modo di pensare, per educarci a pensare a partire dall’Altro.

In un intervento dal titolo “Creolizzare l’Europa” il professor A. Gnisci[7] osserva come l’Italia e l’Europa occidentale potrebbero pian piano, e invisibilmente agli occhi di quasi tutti, andar “creoliz­zan­dosi”:

 

Ho cominciato a capire che questo processo possibile va asse­condato e guidato al tempo stesso, e promosso, seguito e rac­contato, studiato e favorito, e messo in opera. Che cosa in­tendo con la parola “creolizzazione”? Un fenomeno provocato dalla «Grande Migrazione» (come l’ha chiamata anni fa H.M. Enzesberger) di popoli che si spostano dal sud e dall’est del mondo verso il nord-ovest; un flusso che ha la stessa direzione geologica della penisola italiana, messa per traverso diagonale nel Mediterraneo da sud-est a nord-ovest. Da una trentina di anni – potremmo dire anche, dalla fine degli imperi coloniali europei – tutti i mondi, dal Sud America alle Filippine, cer­cano di migrare verso l’Europa occidentale.
I demografi e i sociologi definiscono l’anno 1970 per l’Italia come lo spartiacque del così detto “saldo migratorio”; e cioè, il momento di mutazione in cui l’emigrazione italiana verso tutti i continenti finisce e inizia quello all’inverso: quello dell’immigrazione di popoli, dai quelli più vicini (l’albanese o il tunisino, dai quali ci dividono brevi tratti di mare) a quelli più lontani dell’Africa e dell’Asia. Ho ripreso il concetto di creolizzazione dalla particolare elaborazione che ne fa lo scrittore caraibico francofono Édouard Glissant. Con questo concetto egli indica il fenomeno mondiale dell’incrociarsi e del meticciarsi delle lingue, delle culture, dei popoli e degli indi­vidui, con in più e in oltre (rispetto al meticciarsi) la creazione dell’imprevedibile; che vuol dire e produrre anche l’imprevedibilità di ciò che può essere creato dagli incontri delle diversità. Come avviene nelle “opere comuni” delle lin­gue e delle arti della parola e della musica, soprattutto e prima di tutte le altre forme della cultura. Il grande crogiolo caraibico e quello brasiliano, e non il melting pot fallito degli Stati Uniti d’America, sono gli esempi e le avanguardie di questo nuovo ordine – ricco e positivo, doloroso e gioioso allo stesso tempo – della storia della nostra specie. Le migrazioni danno l’origine e la ricchezza di una nuova civiltà planetaria creoliz­zata: di qualcosa di imprevedibile che viene dopo (che è cosa molto diversa e più sensata del «post-moderno»). E di un’Europa che dopo un millennio e mezzo dal suo ultimo grande melting cre­ole ne sta forse reiniziando un altro. […] L’Europa è terra di lunghi rinnovi e di effimere, anche se spettacolari e accademi­che, rinascenze; dove è possibile che gli europei vengano tra­sformati senza soccombere e senza intri­stirsi nel procurare ge­nocidio, come è avvenuto quando sono stati essi a invadere e colonizzare. Sostengo, quindi, che la cre­olizzazione è la mèta dei nostri migliori desideri di italiani ed europei. L’Europa, ri­peto, non è un continente semivuoto, come lo erano le Ameri­che quando vi arrivarono gli europei a sterminare i popoli in­digeni e a svuotare del tutto un conti­nente lungo, che va da un polo all’altro. Nell’Europa Unita, quella che è in fase di allar­gamento (a parte la Russia, che è l’ultimo impero coloniale, padroneggiando ancora mezza Asia, che nessuno denuncia come tale e che come tale è invi­tato ad entrare in Europa da mediocri e ignoranti circensi come il nostro premier) ci sono 350 milioni di cittadini. Tutti occupati ad amministrare ric­chezza e tristezza. Vecchiaia senza bambini e privilegi distin­guono soprattutto gli europei occidentali e in prima fila gli italiani, che sono ormai la prima nazione sterile del mondo, ri­spetto ai popoli che soffrono la povertà e sono oppressi dal re­gno degli affari e del dominio che governa il pianeta (basti guardare il grande continente africano che abbiamo di fronte).

 

Ci è parso opportuno riportare integralmente questo lungo stralcio perché la lucida analisi di Gnisci ci induce agevolmente a concludere che i nuovi migranti portano nel nostra decadente Eu­ropa voglia di lavorare e di migliorare la loro nascita sventurata, portando una ventata freschezza e vitalità. La creolizzazione è dun­que un’ideologia da abbracciare, un nuovo valore, una poetica del mondo, un modello di comportamento e un traguardo auspicabile per tutti.

 

2.    Il ruolo delle agenzie educative nella forma­zione del concetto di identità. Quale paradigma pedagogico?

 

Cruciale è il ruolo svolto dalle agenzie educative affinché le nuove generazioni sviluppino una “mentalità multiculturale”, nell’intento di ridurre l’aggressività e il rischio xenofobo. Altrettanto cruciale ai fini della comprensione del nostro argomento è il con­cetto di iden­tità, di cui ci occuperemo, seppur in maniera trasver­sale, sia in que­sto capitolo sia nel successivo. È vero infatti che la paura subliminale dell’Altro, del Diverso, è qualcosa di atavico che risiede tanto al fondo dell’animo umano, quanto nell’inconscio e nell’immaginario collettivi. Questa apprensione sempre latente può essere controllata dalle agenzie educative tramite appositi interventi. Ciò a patto che, a monte, le istituzioni agiscano in modo da gestire i flussi migratori in termini socialmente sostenibili e da porre i citta­dini al riparo dalla criminalità.

La lotta alla criminalità da parte dello Stato è fondamentale per aiu­tare il cittadino a distinguere tra immigrato e delinquente: molti immigrati sono persone perbene alla ricerca nel nostro Paese di una vita migliore e hanno diritto di non essere confusi con i de­linquenti comuni e additati come criminali. Al contempo i cittadini hanno di­ritto di essere tutelati da quella minoranza di immigrati clandestini che entrano nel nostro Paese non per migliorare le loro condizioni esistenziali ed economiche, bensì per delinquere e por­tare disordine sociale.

Che cos’è infatti che induce una persona a insultare, esclu­dere, di­scriminare, aggredire fisicamente o addirittura uccidere un suo si­mile? Quali sono le radici profonde del comportamento ag­gressivo verso persone sconosciute, ma giudicate pericolose in virtù della loro fede religiosa e appartenenza culturale? La storia ci inse­gna di quali e quante crudeltà è capace il genere umano.

L’aggressività è presente in ognuno di noi come predisposi­zione in­nata: se si presenta il bisogno di reagire a un attacco, noi possiamo aggredire o fuggire, ma se tali condizioni non si presen­tano en­trambe le reazioni sono inattive. Una delle teorie più impor­tanti nello studio delle radici del razzismo è senza dubbio quella del filo­sofo tedesco T.L.W. Adorno il quale negli anni Cinquanta del se­colo scorso introdusse il concetto di personalità autoritaria.

La personalità autoritaria secondo Adorno è caratterizzata da: rimo­zione dalla coscienza dei sentimenti ritenuti socialmente inaccetta­bili (per esempio paura, passività ecc.); proiezione delle tendenze rimosse dalla propria coscienza sugli altri, percepiti quindi come ostili e potenzialmente pericolosi e dei quali si condanna ogni de­bolezza; rifiuto dell’introspezione e una certa povertà affettiva; con­venzionalità sociale; ricerca del potere e del benessere econo­mico; incapacità di tollerare l’ambiguità e l’incertezza con la conse­guente rigidità ideologica (fonte di pregiudizi); Infine, le persone autoritarie riferiscono di rapporti severi con i genitori e di dura di­sciplina rice­vuta durante l’infanzia. Esse odiano le minoranze, mo­strano diffi­coltà nel comprendere posizioni a loro antitetiche e a in­dividuare soluzioni costruttive ai problemi e alle difficoltà. L’origine di questa costellazioni di caratteristiche è da ricercarsi in una debo­lezza dell’Io legata a specifici percorsi di socializzazione e al tipo d’interazione avuta con le figure genitoriali. L’individuo debole si identifica con il potere e cerca protezione in ogni forma di certezza: il suo bisogno spasmodico di protezione e il livello patologico d’instabilità perso­nale si esprimono nell’accettazione degli stereo­tipi. Nello studio delle cause dell’autoritarismo e prendendo in esame l’effetto dell’imitazione, è emerso che studenti universitari con un alto grado di autoritarismo avevano genitori che mostravano anch’essi un ele­vato livello di aggressività.

Si suppone quindi che genitori autoritari allevino figli auto­ritari e maggiormente propensi al pregiudizio sociale. È la paura del nuovo, dell’ignoto e del diverso che spinge alcune persone a mettere in atto un’azione offensiva-difensiva. Le origini di questo timore vanno rintracciate nelle dinamiche psicologiche delle persone che nell’infanzia hanno subito una socializzazione autoritaria e repres­siva.

In un passato non troppo remoto il fiorire di situazioni di matrice xenofoba è stato attribuito sostanzialmente alla modesta esperienza italiana in fatto di immigrazione e di rapporti multietnici. Ma adesso che il fenomeno dell’intolleranza e del razzismo si è dif­fuso anche in nazioni che, contrariamente all’Italia, hanno un’esperienza di flussi migratori ben più consolidata, anche questa ipotesi viene a cadere; se ne deduce perciò che le origini di tale at­teggiamento sono esclusi­vamente di tipo psicologico, come ben evi­denziato dall’analisi di Adorno.

Il costante aumento delle presenze di minori stranieri, oltre a rap­presentare il segno evidente di una trasformazione dell’Italia in pa­ese ad altissimo tasso d’immigrazione, porta le scuole presenti sul territorio alla necessità di una rapida riorganizzazione complessiva. Considerare i bambini o i ragazzi stranieri come portatori di forte disagio o, al contrario, come soggetti che non hanno bisogno di al­cun intervento mirato, significa non saper accogliere i loro autentici bisogni e le reali opportunità di soddisfazione che possiamo pro­spettargli. La necessità di una conoscenza più approfondita dei bi­sogni espressi dai minori stranieri ci pone in un’ottica di adegua­mento strutturale della scuola e delle altre agenzie di formazione.

L’esperienza migratoria rappresenta un elemento di lacera­zione dell’identità, che spesso provoca un disagio “silenzioso”, diffi­cile da comprendere. Alla luce di questa realtà costruire le solide basi del rispetto che si può avere solo mediante la conoscenza dell’Altro. L’intento degli insegnanti dovrebbe essere quello di favo­rire nell’allievo straniero una maggiore adesione alla realtà e ridurre quell’aura quasi mitologica, veicolata dai media, che spesso caratte­rizza il paese d’emigrazione, rafforzare la sua autostima e offrirgli maggiori strumenti per un confronto con la società di arrivo. Stimo­lare nel gruppo la convivenza con altre identità etniche e culturali non significa appiattirsi azzerando le differenze, ma al contrario im­plica saper stimolare la capacità di ciascuno di essere differente. L’obiettivo finale consiste nell’educazione al diritto alla differenza. Questo richiede a ciascuno di noi di sfuggire ai condizionamenti omologanti. “Abbiamo tutti gli stessi diritti perché siamo tutti uguali” non è vero, perché non siamo tutti uguali, e questa è una re­altà: il vero obiettivo di una società giusta verso tutti è garantire il ri­conoscimento e il diritto ad essere diversi e il dovere di rispettare la diversità altrui.

Uno degli strumenti sempre più utilizzati in Italia, in vista di una maggiore integrazione con gli stranieri residenti nel nostro pa­ese, è quello della mediazione culturale. La mediazione culturale è un progetto educativo che ha l’obiettivo di facilitare le relazioni tra gli autoctoni e i cittadini stranieri, con l’intento di promuove la reci­proca conoscenza e comprensione, al fine di favorire un rapporto positivo tra soggetti portatori di culture diverse. Gli elementi che maggiormente caratterizzano i mediatori culturali sono la compe­tenza comunicativa, l’empatia, l’ascolto attivo e la conoscenza sia del paese di accoglienza, sia del paese di provenienza (cultura, leggi, tradizioni, ecc.) dei loro assistiti. Un sempre maggior numero di Atenei propone master per formare operatori altamente specializzati con l’obiettivo di rispondere sempre più adeguatamente al nuovo assetto demografico e sociale europeo e italiano, caratterizzato dall’incremento e dalla progressiva stabilizzazione dei fenomeni migratori e, di conseguenza, dall’urgenza di realizzare spazi e forme per una nuova cittadinanza.

Bisogna ammettere che se molte amministrazioni locali hanno fatto della mediazione culturale una bandiera, consideran­dola un “ponte educativo” indispensabile per mettere in collega­mento culture di­verse in seno alla stessa società, altre invece la ri­tengono una perdita di tempo sulla quale non conviene investire né tempo né denaro.

Naturalmente non solo degli operatori appositamente for­mati, ma anche e soprattutto i genitori sono chiamati a impegnarsi quali me­diatori di cultura; il valore dei loro insegnamenti è alto se corri­sponde ai loro comportamenti: i bambini, infatti, assorbono i loro atteggiamenti molto più dei loro discorsi. I genitori possono fa­vorire nei figli un comportamento socializzante solo mediante un com­portamento altruistico, cooperativo ed empatico. Lo stile educa­tivo dei genitori dovrà essere autorevole (e non autoritario): limiti e re­gole sono indispensabili ai bambini perché offrono loro quella bar­riera di contenimento emotivo indispensabile per crescere sereni e sicuri; se sono eccessivi e imposti senza venire spiegati possono dar luogo a quella personalità autoritaria di cui si è detto diffusamente sopra. I genitori possono far vivere direttamente ai loro figli realtà positive di comunità di persone provenienti da Paesi diversi, fa­cendo loro visitare comunità multietniche che vivono serenamente, insegnando loro a rispettare e valorizzare le differenze. Già lo scrit­tore H. Hesse,[8] attraverso le parole di Narciso, mise in luce il fascino della diversità e il suo intrinseco valore formativo:

 

E così per te le differenze non hanno molta importanza, a me invece sembrano l’unica cosa importante. Io sono per natura un erudito, la mia vocazione è la scienza. E scienza altro ap­punto non è per citare le tue parole, che la mania di trovar dif­ferenze! […] La nostra meta non è di trasformarci l’uno nell’altro, ma di conoscerci l’un l’altro e d’imparare a vedere ed a rispettare nell’altro ciò che egli è: il nostro opposto e il no­stro complemento.

 

Un accenno merita anche la famiglia multietnica, ossia il nu­cleo familiare generato dal matrimonio misto[9] o dall’adozione inter­nazio­nale[10] fenomeni che hanno entrambi conosciuto la loro mag­giore diffusione negli ultimi tempi. La presenza nei vari paesi euro­pei di un numero sempre più consistente di famiglie “altre” offre molti spunti di riflessione sul tema dell’identità individuale e comu­nitaria. Questi nuclei familiari costituiscono le prime cellule nel tes­suto della futura società meticcia.

L’obiettivo primario dunque è opporsi strenuamente ai soste­nitori dell’etnicizzazione e della biologizzazione dell’identità. Biso­gne­rebbe sorvegliare attentamente il modo in cui alcuni educatori (in primis i genitori) utilizzano il concetto di identità, perché travi­san­dolo si possono fare grandi disastri. Spesso, infatti, la filosofia che anima talune relazioni educative è quella “noicentrica”. Occorre in­vece coltivare un pensiero plurale anche per quel che riguarda la formazione identitaria dei cittadini di domani.

Il pedagogista F. Cambi ci offre importanti elementi su cui ri­flettere. Egli afferma che stiamo vivendo una vera svolta epocale, una rivo­luzione antropologica: il passaggio dal paradigma culturale dell’identità al paradigma della differenza, come dimostrano autori quali Nietzsche, Heidegger, Foucault, Derrida, Irigaray e Lévinas. Il mutamento di valori e la trasformazione di mentalità che è in corso dipendono dallo scambio, dal meticciamento culturale. Quello che ne sta nascendo è un io nuovo, un’identità aperta, che potremmo de­finire “meticcia”. Questa identità non è più riconducibile allo sciovi­nismo delle radici e delle appartenenze, è un’identità di migrazione, dove l’appartenenza è uno status multiforme e di natura trasversale.

Afferma Cambi:

 

Chi emigra si sradica (portando con sé le proprie radici) e si inoltra in “terre straniere”, dove stanno altri soggetti, altre culture, che lo spiazzano, lo respingono, lo emarginano. Ma l’emigrazione esige volontà di integrazione, di confronto, di accoglienza, quindi si dispone al dialogo e all’incontro. L’effetto di queste pratiche – per dure che siano – è quella “mente nomade”, più libera, più plurale, più aperta che è la ri­chiesta del presente.

 

Nell’epoca della società meticcia e del nuovo paradigma pe­dagogico che ha il suo fondamento proprio nelle differenze, l’identità è chia­mata a decostruirsi e a ripensarsi in una prospettiva diversa, sgan­ciata finalmente del falso mito della superiorità occi­dentale. Il “farsi meticci è valore” dice Cambi. Siamo in una condi­zione ibridante, in una “forma meticciante del pensiero e dell’agire”.
E “meticciato” aggiunge “significa accogliere le ragioni dell’altro, forme della sua identità, caratteri della sua cultura, poiché proprio il dialogo trasforma, miscela, apre spazi di scambio, crea comunica­zione”.

Si tratta di ripensare a un’altra appartenenza, più globale e più per­sonale, meno legata a ciò che è materiale (confini nazionali, be­nes­sere economico, status sociale ecc.) a vantaggio di una dimen­sione etica-spirituale, più interiorizzata. La direzione da tenere è la se­guente:

 

L’ibridazione è necessaria ed è l’interfaccia del pluralismo e della tolleranza, anche se questi non necessariamente si risol­vono in quella. L’ibridazione è una possibilità, ed è positiva in quanto produce novità, una cultura meticcia ulteriore, dove più che il sincretismo si valorizza, appunto, il dialogo, la capa­cità di assimilarsi reciprocamente. E ben sappiamo come cul­ture meticce siano presenti produttivamente in molte parti del globo e come abbiano prodotto convivenza e, in genere, con­vivenza più pacifica.

 

Anche il filosofo G. Vattimo ha sottolineato in un suo recente inter­vento[11] che nella società odierna sono sempre più frequenti le conta­minazioni identitarie: gli individui sperimentano nel loro quo­tidiano mescolanze e ibridazioni che in altre epoche erano impensa­bili. Oggi il progresso nei campi della tecnica, delle telecomunica­zioni, della medicina e delle neuroscienze rendono possibili incur­sioni di una stessa persona attraverso identità molteplici e molto lontane tra loro. L’Occidente, a differenza delle culture-religioni orientali, ha sempre vissuto nel mito e nell’ossessione dell’identità dell’Io, inteso come unico, immodificabile e monolitico. L’angoscia legata alla strenua di­fesa dei confini del proprio Io da qualsiasi mi­naccia e contamina­zione esterna è ancorata alla civiltà occidentale, latina, mentre quella greca, per esempio, era una società dinamica che considerava il con­flitto e il confronto con l’Altro, il Diverso come preziosi strumenti di crescita e di evoluzione.

Dinanzi a questo scenario la scuola e l’università sono chia­mate a supportare la formazione di una mentalità multiculturale nelle nuove generazioni, esponendoli alla contaminazione reciproca con quelle culture. In sintesi, è oggi più che mai urgente aiutare l’individuo a percepire se stesso e gli altri come identità multiple. Solo questo gioco di riconoscimenti reciproci può fare emergere nuove idee di cittadinanza, e ciò a tutti i livelli, locale, nazionale e planetario.

L’università deve considerare come una propria risorsa for­mativa uno dei tratti più importanti della presente transizione epo­cale: il fatto che le relazioni tra individui, come pure la loro apparte­nenza a comunità o a identità collettive, non sono più regolate sol­tanto dalla contiguità spaziale: la vita oggi si sta svolgendo in una molteplicità di spazi comunicativi, in cui il piano simbolico, geogra­fico, storico e soggettivo si mescolano in maniera inestricabile. L’individuo che abitare contemporaneamente questi molteplici spazi, scopre in se stesso identità quanto mai diversificate e stratifi­cate, e deve mediare tra le tensioni che ne scaturiscono e ricomporre il conflitto.

In tal senso, un obiettivo formativo essenziale è quello di aiutare l’individuo a integrare e a connettere identità di tipo spaziale (l’appartenenza a uno stato, a una regione, a un continente, a una città) e identità di tipo non spaziale, identità puramente individuali e identità collettive, identità tradizionali e identità alternative. È solo accettando la sfida epistemologica delle identità multiple che l’università può trasformarsi in un’agenzia formativa al passo con in cambiamenti in atto.

Dal momento che Internet ha spalancato le porte alla diversi­fica­zione/moltiplicazione delle esperienze, ha aumentato esponen­zial­mente le possibilità di incontro tra le persone e reso più imme­diato e quotidiano il contatto con culture diverse e mondi lontani, il com­pito delle istituzioni formative diventa quello di aiutare le per­sone a inserire una congerie di esperienze eterogenee in una rete di connes­sioni multiple, creando una sorta di “ipertesto delle identità” che giorno dopo giorno si arricchisce di nuovi collegamenti.

 

3.    Amartya Sen e il modello inglese di multicultu­ralismo inclusivo

 

Per chiarire meglio la relazione tra identità e “società metic­cia” chiamiamo in nostro aiuto uno dei più grandi intellettuali del nostro tempo, l’economista A. Sen.[12] La doppia appartenenza cultu­rale (in­diana e anglosassone) permette allo studioso di offrire all’Occidente un punto di vista critico sul tema della società multi­culturale che nessun intellettuale europeo potrebbe esprimere con altrettanta chiarezza e lucidità.

In un articolo apparso su Il Corriere della Sera[13] Sen vede na­scere la coe­sistenza quando le tradizioni non si limitano a tollerarsi vicende­volmente, ma si fondono in stili di vita diversi, multisfac­cettati. Per esemplificare, un po’ quello che avviene nelle cucine di Londra dove nascono le ricette angloindiane, un mix originalissimo nato dall’incontro di due tradizioni.

Ma torniamo a noi. Nel mondo contemporaneo la richiesta di multi­culturalismo è forte: esso è invocato a gran voce nella pratica sociale, culturale e politica, soprattutto nell’Europa occidentale e ne­gli Stati Uniti. Questo non sorprende affatto, dato che gli accresciuti contatti e interazioni a livello mondiale, grazie a Internet, e soprat­tutto le diffuse migrazioni di massa hanno posto culture diverse l’una ac­canto all’altra.

Il precetto cristiano “Ama il prossimo tuo” oggi è sempre più diffi­cile da mettere in pratica: se un tempo infatti “i vicini di casa” con­dividevano più o meno lo stesso stile di vita, adesso sempre più spesso ci dobbiamo relazionare con un vicinato che ha abitudini molto distanti dalle nostre. Compito non sempre facile. La natura globale del mondo contemporaneo, peraltro, non ci concede il lusso di disinteressarci delle sfide che il multiculturalismo pone.

Uno dei punti nodali riguarda il modo di considerare le per­sone: queste devono essere cioè classificate secondo le tradizioni (in parti­colare la religione) della comunità in cui sono nati, e questa identità non scelta deve avere la priorità rispetto ad altre affiliazioni riguar­danti la politica, la professione, la classe, il genere, la lingua, la lette­ratura, l’impegno sociale ecc.? Oppure le persone devono essere considerate sulla base delle loro varie affiliazioni e associazioni, se­condo un ordine d’importanza che spetta solo a loro decidere, as­sumendosi la responsabilità di una scelta ragionata? Secondo Sen non si possono eludere questi punti fondamentali se vogliamo va­lutare la questione del multiculturalismo in modo equo.

In un altro intervento apparso su Il Sole 24 Ore[14] Sen è dell’opinione che:

 

L’inaggirabile natura plurale delle nostre identità ci costringe a prendere delle decisioni sull’importanza relativa delle nostre diverse associazioni e affiliazioni in ogni contesto specifico. Un ruolo centrale nella vita di un essere umano, quindi, è oc­cupato dalle responsabilità legate alle scelte razionali. Per contro, a promuovere la violenza è la coltivazione di un sen­timento di inevitabilità riguardo a una qualche presunta iden­tità unica – spesso belligerante – che noi possederemmo e che apparentemente pretende molto da noi (spesso cose del genere più sgradevole). L’imposizione di una presunta identità unica spesso è una componente fondamentale di quell’arte marziale che consiste nel fomentare conflitti settari. […]
La speranza di armonia nel mondo contemporaneo risiede in gran parte in una comprensione più chiara delle pluralità dell’identità umana, e nel riconoscimento che tali pluralità sono trasversali e rappresentano un antidoto a una separa­zione netta lungo una linea divisoria fortificata e impenetra­bile.

 

Quali opportunità hanno, a scuola o in altri contesti formativi, i membri di comunità differenti di vedere la realtà criticamente, di conoscere in modo approfondito delle alternative possibili alle tra­dizioni che hanno ereditato o sono state loro imposte? Se questa possibilità viene garantita, allora è assicurata a ciascun individuo la possibilità di diventare davvero quello che vuole, di costruire la propria identità in base a un criterio di informata autoderminazione. L’identità personale è concepita da Sen come un mosaico di tante sfaccettature, affiliazioni, scelte personali consapevoli, e comunque come “un’opera aperta” continuamente ampliabile e rinegoziabile, e non come un dato biologico, prestabilito e immodificabile.

I conflitti che caratterizzano la nostra epoca sono spesso inter­pretati come un corollario delle divisioni religiose o culturali del mondo. Alla base di questa lettura della realtà c’è l’erronea convin­zione che la popolazione del pianeta possa essere divisa ordinata­mente in ca­tegorie. Nelle nostre vite quotidiane però, un rigido si­stema classifi­catorio di questo tipo è destinato all’insuccesso perché ciascuno di noi può considerarsi contemporaneamente membro di svariati gruppi. La stessa persona infatti, per parafrasare le parole di Sen, può essere al contempo cittadina britannica, originaria delle In­die Occidentali, d’origine africana, donna, di fede musulmana, ve­geta­riana, socialista, amante del jazz ecc. Ciascuna di queste catego­rie le conferisce un’identità particolare; ma sta soltanto a lei decidere quale importanza relativa attribuire a ciascuna di queste affiliazioni, a seconda del contesto.

La violenza sociale scaturisce dalla priorità che viene attribuita a una pretesa identità standard. Come se ogni individuo potesse es­sere semplicisticamente rappresentato dalla bandiera della nazione cui appartiene, dalle insegne della religione che professa, dalle ca­ratteri­stiche della professione che svolge e via dicendo. Un procedi­mento un po’ troppo schematico e riduttivo. Eppure quando du­rante la guerra civile in Ruanda i guerriglieri arruolavano gli Hutu per am­mazzare i Tutsi, alle potenziali reclute dicevano soltanto che i nemici da sterminare erano i “Tutsi” in quanto appartenenti a quella parti­colare tribù, e tralasciando di sottolineare che i Tutsi sono anche qualcosa di più: essi sono anche Kigaliani, Ruandesi, Africani ed es­seri umani…

Anche il mondo islamico talvolta è viziato da una visione a senso unico: in molti paesi infatti le autorità politiche assumono l’identità islamica dei loro cittadini come l’unica identità di una per­sona mu­sulmana. In tal modo il potere delle autorità religiose cresce fino a cancellare ogni differenza tra società civile e comunità reli­giosa. Non a caso i problemi d’integrazione più seri riguardano pro­prio immi­grati musulmani provenienti da paesi in cui sono le auto­rità eccle­siastiche a fondare e rendere legittimo il sistema sociale, giuridico e politico-istituzionale. Per contro, in Europa i principi fondamentali dell’ordinamento sociale sono la laicità dello Stato, la netta separa­zione dei poteri civili e religiosi, la libertà di coscienza e di opinione, l’autonomia individuale e la parità tra i sessi.

È interessante, quando si discute della teoria e della pratica del mul­ticulturalismo, soffermarsi particolarmente sull’esperienza inglese in materia di politiche per l’integrazione. L’Inghilterra è stata all’avanguardia nel promuovere un multiculturalismo inclusivo, che è passato attraverso successi e difficoltà, e il cui esempio è im­portante per gli altri paesi europei e per gli Stati Uniti. Nel 1981 in Inghilterra, a Londra e a Liverpool, vi sono stati disordini per ra­gioni razziali – anche se non paragonabili a quelli che si sono verifi­cati in Francia nelle banlieues parigine nell’autunno del 2005 – e que­sto ha portato a un ulteriore sforzo delle istituzioni verso l’integrazione.

Negli ultimi venticinque anni, la situazione è rimasta stabile e piut­tosto tranquilla. In Inghilterra il processo d’integrazione è stato fa­vorito dal fatto che tutti i residenti provenienti da paesi del Com­monwealth, che costituiscono la maggior parte degli immi­granti non bianchi, hanno pieno diritto di voto, anche quando non possiedono la cittadinanza inglese. L’integrazione è stata ulterior­mente facilitata e rafforzata dal trattamento non discriminatorio nei confronti degli immigrati in materia di assistenza sanitaria, scuola e previdenza so­ciale.

Nonostante questa intelligente politica sociale, però, negli ultimi tempi l’Inghilterra ha dovuto prendere atto dell’emarginazione di un gruppo di immigrati e della presenza di alcune cellule terroristi­che allevate in casa propria. Giovani musul­mani provenienti da fa­miglie di immigrati – nati, istruiti e cresciuti in Inghilterra – hanno ucciso molte persone nel luglio del 2005 a Londra in un attacco sui­cida sulla metropolitana. Sei settimane dopo gli attacchi terroristi di luglio a Londra, quando Le Monde pubblicò un articolo intitolato “Il modello multiculturale inglese in crisi”, al dibattito si unì subito J.A. Goldston, direttore dell’Open Society Ju­stice Initiative in America, che definì l’articolo apparso su Le Monde “esagerato” e replicò:

 

Non usiamo la minaccia del terrorismo per giustificare l’archiviazione di un quarto di secolo di successi raggiunti da­gli inglesi nel campo delle relazioni razziali.

 

Sen sposa questa presa di posizione a difesa del modello in­glese precisandola ulteriormente.[15] In una società moderna la via dell’integrazione dei nuovi arrivati è l’unica strada percorribile.[16] Sen propone un modello d’integrazione basato su cinque principi. Il primo consiste nel primato della persona sia sullo Stato sia sulla comunità. Sulla priorità della persona rispetto allo Stato e alla co­munità non c’è bisogno di spendere molte parole; si tratta di un’acquisizione consolidata, almeno nelle nostre società occidentali – anche se non sempre applicata nella pratica. In buona sostanza, è la soggettività della persona il fondamento del rapporto comunita­rio, il quale va edificato o reinventato a partire da soggetti che sono capaci e liberi di scegliere e dunque capaci di assumersi la responsa­bilità del proprio destino.

Al tempo stesso, però, la libertà – ed è questo il secondo principio del modello di Sen – non è pienamente tale se non va oltre la mera autodeterminazione, il “fare quel che si vuole”. Infatti, la persona, a differenza dell’individuo, è definita anche dalla cultura in cui essa è cresciuta o nella quale sceglie di riconoscersi, e ha dei do­veri nei confronti di essa. La scelta non è mai tra vivere da eremiti, facendo tutto quello che si vuole, o vivere in società, accettando le regole della convivenza, ma tra vivere in una società sorretta da certe re­gole piuttosto che da altre. Una società autenticamente ri­spettosa delle ragioni della libertà, intesa nel suo senso più alto, non può pre­scindere dal riconoscimento pubblico delle particolarità culturali che coesistono al suo interno.

Il terzo principio individuato da Sen è quello della neutralità – be­ninteso, non dell’indifferenza – dello Stato nei confronti delle molte­plici appartenenze culturali dei suoi cittadini. Il quarto princi­pio af­ferma che lo Stato laico, cioè neutrale, nel perseguire l’obiettivo di integrare le minoranze etnoculturali entro una comune cultura na­zionale, adotta quale presupposto per l’integrabilità che le culture presenti nel paese concordino tutte su un nucleo duro di valori, un insieme di principi irrinunciabili validi per tutti gli uo­mini, quale che sia la loro appartenenza a una specifica cultura, a qualsiasi lati­tudine e in ogni epoca. Si tratta dei diritti universali dell’uomo.

Infine, che dire di quelle culture che chiedono di integrarsi nella so­cietà occidentale, ma che poi rifiutano qualsiasi accomoda­mento utile ad accogliere lo statuto dei diritti fondamentali? In base al quinto principio enunciato da Sen, lo Stato, in nome dei diritti del cittadino destinerà delle risorse ai gruppi portatori di quelle culture per aiutarli a evolvere verso l’accettazione dei diritti fondamentali dell’uomo. È ciò che s’intende quando si parla di “principio di tolle­ranza condizionata”: io Stato ti aiuto perché tu possa fare posto, te­nuto conto della tua tradizione culturale, all’accoglimento dei diritti fondamentali. L’educazione interculturale deve consentire a ciascun individuo sia di affermare la propria identità culturale sia di supe­rarla qualora essa non si dimostri capace di cogliere l’universalità dei diritti fondamentali dell’uomo.

Attraverso questi cinque punti, Sen ha voluto formulare una propo­sta che sia in grado di scongiurare per il futuro della nostra società due situazioni estreme ed entrambe pericolose: da un lato l’imperialismo culturale di tipo francese – che tende a fare del di­verso uno di noi[17] portando all’assimilazione delle culture diverse ri­spetto a quella dominante, dall’altro il relativismo culturale, che conduce alla balcanizzazione della società, ossia all’autogoverno delle minoranze.

D’alto canto, quella di imparare a convivere con l’Altro, con il Di­verso non può ridursi a una pedagogia a senso unico, ma deve fon­darsi su acquisizioni e adattamenti reciproci. Se da un lato il ri­schio più grave è quello della xenofobia dei cittadini ospitanti, il suo con­traltare è dato dall’integralismo dei cittadini ospiti. È infatti forte la propensione di alcuni gruppi, specialmente immigrati musul­mani, a chiudersi in sodalizi comunitari inaccessibili, microcosmi basati su regole proprie e avulsi dalla realtà sociale circostante che li ospita. Condizione indispensabile affinché genti differenti possano convi­vere nell’ambito di una realtà sociale non frammentata in sin­gole aree comunitarie è il rispetto, da parte di quanti approdano sulle sponde europee, di quei principi fondamentali del sistema po­litico e dell’ordinamento civile e giuridico che costituiscono altret­tanti punti fermi dello Stato di diritto e di una società laica e plurali­sta. Questo dovrebbe essere il meccanismo più efficace sia per scon­figgere la xe­nofobia sia per evitare il rischio che si diffondano encla­ves e subcul­ture estremiste, fondate su regole e logiche del tutto avulse dagli statuti del paese di residenza, quando non apertamente ostili ai principi della democrazia.

 

4.    Vivere insieme in Italia. Verso una società mul­tietnica. La nuova legge per l’immigrazione. Prospettive.

 

Prediamo spunto per la scelta del titolo di questo capitolo, così come per la sua trattazione, dall’Album italiano recentemente cu­rato dal professor V. Castronovo.[18]

Per quel che riguarda la situazione in Italia, sempre più spesso, a causa anche del fenomeno immigratorio verso il nostro Pa­ese,[19] assi­stiamo a deplorevoli episodi di violenza nei confronti di per­sone appartenenti a etnie o religioni diverse dalla nostra. È chiaro che a volte le reazioni aggressive sono risposte, seppure de­precabili, su­scitate da comportamenti effettivamente provocatori o irrispettosi; ma è altresì vero che in taluni episodi si può riscontrare un certo grado di xenofobia.

Al fine di agevolare l’integrazione, si è giunti nel nostro pa­ese a pre­disporre, su iniziativa del ministro dell’Interno Giuliano Amato, un disegno di legge che contempla nuove disposizioni per l’accesso de­gli extracomunitari alla cittadinanza, connesse e subor­dinate all’adesione ai principi costituzionali e al rispetto delle norme basi­lari della convivenza civile. E ciò in base a una “Carta dei valori” (il “nucleo duro” di principi etici cui fa riferimento A. Sen con la sua proposta) che accomuna i membri di tutte le comunità etniche e reli­giose. In estrema sintesi il disegno di legge prevede che non siano più necessari dieci anni di residenza legale per chiedere la cittadi­nanza bensì cinque. Le condizioni perché questa sia concessa sono la fedina penale pulita, la conoscenza della cultura italiana, la padro­nanza della nostra lingua e la dichiarazione ufficiale di fedeltà ai principi sanciti dalla nostra Costituzione.

L’integrazione è la vera scommessa di ogni politica dell’immigrazione del xxi secolo e la riforma, insieme con gli inter­venti già varati dal Governo Prodi, avrà raggiunto i suoi scopi se, attraverso una regolazione razionale del fenomeno migratorio, avrà favorito un’equilibrata integrazione degli stranieri nella nostra co­munità, nel rispetto dei diritti e doveri di ciascuno. Al di là delle li­nee generali del disegno di legge, vi sono misure specifiche che mi­rano alla promozione dell’integrazione, ad esempio la valorizza­zione della figura dei mediatori culturali e la razionalizzazione delle competenze in materia di assistenza sanitaria ai cittadini stranieri.

Un importante strumento di integrazione è la possibilità di parteci­pare alla vita pubblica delle comunità locali dove gli stranieri vivono stabilmente da molti anni. Perciò la riforma, sulla base della Con­venzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a li­vello locale, sottoscritta a Strasburgo il 5 febbraio del 1992, prevede l’attribuzione “dell’elettorato attivo e passivo per le elezioni ammi­nistrative a favore degli stranieri titolari del permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo”. Tradotto, ciò significa che gli stranieri con Carta di soggiorno, che in base alla nuova normativa si può ottenere dopo cinque anni di residenza regolare in Italia, po­tranno votare o candidarsi alle elezioni comunali.

Il discorso ovviamente non riguarda solo il nostro paese e sottoli­neiamo questa necessità attraverso le parole di Castronovo:

 

È evidente perciò come sia altrettanto doveroso che indispen­sabile che i governi europei definiscano nell’ambito dell’Ue una politica dell’immigrazione coerente e ragionevole. E tale, dunque, da perseguire due obiettivi fondamentali: la ridu­zione entro limiti fisiologici del tasso di illegalità e di aggres­sività, potenzialmente insito in tutti i movimenti mi­gratori di massa, causa altrimenti di un clima di tensione e d’insicurezza tra i cittadini; e allo stesso tempo, la formazione di condizioni ambientali e normative che rendano possibile un rapporto di reciproca fiducia e un dialogo diretto tra gli autoctoni e i nuovi arrivati.

 

Anche a causa della mancanza di direttive precise e uniformi a li­vello nazionale – così come a livello comunitario – il fenomeno mi­gratorio ha finito per assumere un aspetto disordinato e caotico, tale da suscitare una sottile diffidenza, se non un’aperta avversione, di larga parte dell’opinione pubblica. Non solo in Italia, ma anche in altri paesi da più tempo avvezzi all’insediamento di stranieri entro i propri confini, l’arrivo incontrollato di una fiumana di persone alla disperata ricerca di una sorte migliore ha prodotto moti di insoffe­renza nella popolazione. E ciò non solo perché l’opinione pubblica identifica immediatamente il fenomeno dell’immigrazione come una minaccia alla sicurezza e all’ordine pubblico, ma anche per la diffi­coltà di elaborare una risposta pratica in termini di integrazione dei nuovi venuti nel tessuto sociale e civile.

In assenza di una linea di condotta comune nell’ambito dell’Ue per la messa a punto di validi modelli di regolazione del flusso migrato­rio e di integrazione nel tessuto sociale, si spiega la riluttanza di molti ad accettare l’immigrazione extracomunitaria come un feno­meno inevitabile e duraturo. Di conseguenza, essa ha finito per es­sere concepita e vissuta da molti europei come una mi­naccia intolle­rabile d’invasione del proprio territorio, un vero e pro­prio attentato alla propria identità nazionale.

 

5.    Conclusioni

 

Possiamo concludere affermando con il professor Paolo Mi­chele Erede che:

 

Una cultura dell’incontro in una società multietnica non può sorgere che dalla rimozione di una inerzia storica e dal gra­duale superamento di una concezione etnocentrica che rende reciprocamente estranei, ai rispettivi universi della cultura e della civiltà, residenti ospitanti ed immigrati.

D’altra parte: l’etnocentrismo[20] non è innato e però rappre­senta qualcosa di molto essenziale dal momento che esso è solamente una estensione dell’egocentrismo che trova nelle autentiche radici della coscienza umana.

 

Per realizzare una società multietnica improntata alla cultura dell’incontro, bisogna dunque necessariamente superare, a livello individuale, quella fase di “egocentrismo” che caratterizza l’infanzia di ogni individuo e, a livello sociale, quella tendenza all’“etnocentrismo” insita negli stati nazionali moderni. Il clima d’instabilità della nostra epoca, la mancanza di solidi punti di rife­rimento[21] e un diffuso senso di insicurezza e di sfiducia verso le istitu­zioni certo non agevolano questo processo, con il rischio di fare dello Straniero, del Diverso, il capro espiatorio di ogni situazione problematica.

I pregiudizi nei confronti degli immigrati vanno superati per la­sciare posto a relazioni sociali autentiche e costruttive, dove non c’è più un “IO” che vuole prevaricare il “TU”, ma un “NOI” che in­con­tra il “VOI”. Da questo incontro prenderà le mosse, ci augu­riamo, il nuovo corso della nostra civiltà, fondato sui principi uni­versali di tolleranza, solidarietà e partecipazione



[1]     Le previsioni demografiche per lo scacchiere europeo indicano che la popolazione originaria degli stati nazionali è in contrazione a causa della scarsa natalità, rendendo probabile uno scenario in cui le attuali minoranze potranno, almeno in certi paesi, assumere il ruolo di maggioranza. Gli studi più accreditati indicano per la Germania nel 2050 uno scenario in cui questa nazione o avrà drasticamente ridotto la popolazione o avrà acquisito una prevalenza turca. Nei paesi europei l’avvento di una società multietnica dovrà essere preparato da un grande sforzo di educazione alla convivenza, altrimenti le tensioni sociali oltrepasseranno il livello di guardia. Lo scrittore Antonio Saltini ha immaginato in un romanzo (A. Saltini, 2057 l'ultimo negoziato. La lotta per il grano che innescò lo scontro atomico finale, Roma, Spazio Rurale, 2005) lo scenario desolante di una convivenza multietnica sfuggita al controllo delle istituzioni e alle regole della mutua tolleranza e ci invita a riflettere sulle implicazioni agroalimentari legate alla ondate immigratorie dai paesi più poveri verso l’Europa.

[2]     L’intervista aveva come titolo “Alle radici di una civiltà meticcia”.

[3]     La parola “meticciato”, che deriva dal termine francese métissage, indica il processo di mescolanza, ibridazione culturale in atto nella società globale. Il meticciamento è caratterizzato da cambiamenti e trasformazioni derivanti da contatti e scambi che sono sempre di più una caratteristica di fondo dei processi sociali in corso, primo tra tutti quello migratorio.

[4]     A. Gnisci, Creolizzare l’Europa. Letteratura e migrazione, Roma, Meltemi, 2003.

[5]     U. Eco, “Prefazione” a A. Calabrò (a cura di), Frontiere, Milano, Il Sole 24 Ore, 2001.

[6]     Stimati accademici non esitano a lanciarsi in violenti atti d’accusa contro l’ordine del mondo stabilito dal capitalismo definito del “Medioevo neoliberale”. I sociologi Z. Bauman, R. Sennett, S. Sassen e l’antropologo culturale A. Appadurai indagano le categorie della tarda modernità con acutezza descrivendo la condizione umana nelle megalopoli globali, la rivoluzione concettuale che coinvolge le nozioni di spazio, tempo e classe sociale, il difficile equilibrio tra identità e differenze etniche nel pianeta globalizzato, così come l’inadeguatezza dello Stato-nazione, istituzione ormai desueta e sempre più messa in crisi dalla foresta di soggetti transnazionali di varia natura. Agli occhi di tutti questi studiosi la flessibilità assurge a paradigma e valore imprescindibile per sopravvivere nella “giungla” della società odierna.

[7]     In “Kumá” n. 6, 2003.

[8]     H. Hesse, Narciso e Boccadoro, Milano, Mondadori, 2001.

[9]     S’intende con matrimonio misto l’unione coniugale tra individui di razza o nazionalità diverse.

[10]    L’adozione internazionale consiste nell’inserimento di un minore straniero in un nucleo familiare autoctono.

[11]    Conferenza tenuta a Genova presso il Politeama Genovese il 15/01/2007.

[12]    Amartya K. Sen (Santiniketan, 1933), economista indiano, Premio Nobel per l’economia nel 1998, Lamont University Professor presso la Harvard University.

[13]    “In bagno lei stinge Mr. Sen?”, tratta da Il Corriere della Sera del 02-01-2006.

[14]    Tratto da un articolo apparso su Il Sole 24 Ore del 16/07/2006 dal titolo “La trappola dell’identità unica”, contenente un estratto del libro di A. Sen, Identità e violenza, Roma-Bari, Laterza, 2006.

[15]    Interessante e in linea con la posizione di A. Sen, l’intervento di A. Giddens apparso su La Repubblica del 19/07/2005 di cui riporto uno stralcio: “Londra ha molti problemi, comprese disparità economiche, un sistema dei trasporti sovrautilizzato, aree di grande criminalità e disordine sociale. La sua diversità culturale ed etnica costituisce al tempo stesso il suo punto di forza e la sua debolezza. Non è lo ‘stoicismo britannico’ ad aver aiutato i londinesi a rispondere in modo così risoluto agli attentati nella loro città. Si è trattato più di uno spirito di solidarietà che ha attraversato i confini etnici e di classe. Nonostante si sia verificato qualche incidente presso le moschee, finora ha vinto il cosmopolitismo”.

[16]    Il contesto in cui tali principi possono essere applicati con un buon margine di successo è secondo Sen quello degli stati uninazionali (del tipo Gran Bretagna, Francia, Italia ecc.) e non quello degli stati multinazionali (del tipo Canada, Svizzera, Belgio, Spagna ecc.).

[17]    L’approccio francese è invece da sempre ispirato a una visione assimilatrice che si concretizza nella prassi, vigente fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, della naturalizzazione dell’immigrato. Le politiche per gli immigrati hanno mirato all’assimilazione degli stranieri all’ideale di una Francia laica e repubblicana; di qui la centralità attribuita al ruolo di mediazione svolto dalle agenzie educative. Il modello francese non è comunque privo di contraddizioni: l’assimilazione culturale, per esempio, non si è accompagnata a un effettivo e diffuso inserimento socioprofessionale degli immigrati.

[18]    Album italiano. Vivere insieme. Verso una società multietnica, a cura di V. Castronovo, con un saggio di C. Giustiniani, Roma-Bari, Laterza, 2007.

[19]    La previsione per quel che riguarda l’Italia prevede che ai ritmi attuali lo stock migratorio raggiungerà nel prossimo decennio la cifre di sette o forse otto milioni di persone.

[20]          L’etnocentrismo è la tendenza a giudicare le altre culture secondo le categorie concettuali della propria.

[21]    I grandi sistemi partitici e ideologici, anche le grandi chiese storiche, si sono fortemente indeboliti.




quaderno_01-2008       Indice del Quaderno N. 1 – 2008