Presentazione della Fondazione Prof. Paolo Michele Erede
del Prof. Michele Marsonet
Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova.
Una nuova opportunità per la cultura a Genova
Discorso tenuto il 23 Marzo 2006, giorno dell'inaugurazione
Il Professor Erede è stato un grande esempio di persona di
formazione scientifica con forti interessi umanistici. Per molti cultura
scientifica e cultura umanistica sono in contrapposizione. Rammentiamo per
esempio il celebre libro di Charles P. Snow, Le due culture, pubblicato nel
1959, e che ha avuto moltissime edizioni. L’ultima in italiano è del 2005
(Edizioni Marsilio, Venezia). Snow rilevava con rammarico l’incomunicabilità
crescente tra umanesimo e cultura scientifico-tecnologica, affermando:
“colmare la frattura che separa le nostre culture è una necessità sia nel
senso intellettuale più astratto, sia nel senso più pratico. Quando questi due
sensi si sviluppano separatamente, nessuna società è in grado di pensare con
assennatezza”.
Per Paolo Michele Erede non esisteva alcuna distinzione di
questo tipo, ed ha vissuto concedendosi ad entrambe le anime culturali. Stimato
medico, ha coltivato interessi di tipo filosofico e umanistico in genere,
considerando la cultura come un tutto unico. Nel corso della sua vita ha
sviluppato questa idea fino in fondo, e lo possiamo quindi ricordare proprio
come esempio d’integrazione tra le due culture.
Ma esiste anche un problema specifico, epistemologico,
della medicina: scienza sì, ma non come le altre. La medicina studia certamente
la salute del nostro corpo, ma alcune sue branche si occupano della salute della
nostra mente. Corpo e mente, tuttavia, sono davvero due entità così separate
come vuole una certa tradizione filosofica, a partire soprattutto da Cartesio in
avanti? Ci sono molti dubbi a questo proposito e, non a caso, nelle pagine di
Erede si coglie sempre l’intuizione dell’intima connessione tra le due parti
dell’essere umano.
Pur non essendo un filosofo di professione, in quanto
medico aveva ben chiaro che la nostra dimensione mentale (o spirituale) ci
distingue da tutto quanto ci circonda. Nei suoi scritti vi sono molti spunti
assai interessanti. Uno dei principali è il suo spiccato interesse per Giordano
Bruno come esempio del libero pensiero, del filosofo che non ha paura di andare
contro l’autorità costituita pur di non rinunciare alle proprie idee, anche a
costo della vita. Un altro è la sensibilità per un fenomeno di cui oggi tutti
parlano: la globalizzazione. E’ chiara l’indicazione che occorre trovare
degli strumenti per dirimere i conflitti senza ricorrere alla forza e fondare
un’etica universale che possa accomunare tutti gli esseri umani al di là
delle differenze tanto di razza quanto di religione.
Ulteriore spunto è che la diffusione della tecnologia non
toglie spazio all’umanesimo, a differenza di quanto sostengono alcuni celebri
filosofi come Martin Heidegger. Al contrario, l’applicazione della tecnologia
informatica alle discipline umanistiche sta diventando un campo sempre più
sfruttato e studiato. La tecnologia ha reso la comunicazione più facile anche
per gli umanisti, quindi non c’è contrasto. E infatti negli scritti del
Professor Erede non si coglie alcun spunto pessimistico sullo sviluppo e la
diffusione della tecnologia.
Nel corso degli ultimi due secoli la scienza è stata
spesso considerata una forma di conoscenza più o meno perfetta e in grado di
fornirci una rappresentazione del mondo neutrale ed oggettiva. Solo in tempi
recenti si è giunti a comprendere che la fiducia nella possibilità di
determinare un punto di vista “privilegiato” è destinata all’insuccesso.
Se si tiene conto dei limiti connessi alle nostre capacità cognitive le
prospettive sono, inevitabilmente, più d’una, e occorre pertanto adottare una
visione diversa e più umile della ricerca scientifica. L’abbandono del punto
di vista privilegiato e assoluto comporta altresì l’introduzione del
pluralismo all’interno dell’edificio scientifico, e le conseguenze di questo
stato di cose sono ovviamente interessanti quando si analizzano i rapporti tra
scienza, etica e società.
Si deve inoltre notare che alla scienza non è consentito
isolarsi dal contesto più generale della cultura; se è vero che la scienza
rappresenta lo strumento principale che abbiamo a disposizione per indagare il
mondo naturale e quello sociale, è altresì legittimo affermare che essa non
vive in isolamento rispetto alla società. La scienza altro non è che una delle
più importanti pratiche umane, e in quanto tale va giudicata sia in riferimento
alla storia, sia avendo presenti le altre pratiche umane che con essa
interagiscono. Vi è dunque qualcosa di errato in ogni forma di razionalità
semplificatrice in questo contesto: occorre tener conto della complessità del
reale e delle interrelazioni che ne formano il tessuto connettivo.
Ogni tentativo di assolutizzazione della scienza è votato
alla sconfitta. Naturalmente tutto questo conduce al relativismo, ma si deve
anche rilevare che “relativismo” e “irrazionalismo” non sono
necessariamente termini sinonimi: dare spazio alla nozione di “ragione
relativa” significa semplicemente ammettere i limiti delle nostre capacità
cognitive, traendone le giuste conseguenze. Proprio per questo, pur ammettendo
che la nostra conoscenza dell’universo procede verso sintesi ampie, si deve
riconoscere al contempo il suo carattere problematico. Solo questa
consapevolezza può scongiurare il pericolo sempre in agguato di assolutizzare
la cornice concettuale delle teorie in base alle quali gli scienziati operano
nelle varie epoche storiche.
E’ opportuno notare, a questo punto, che non esiste una
fisica, una medicina o una biologia italiana, europea o americana, ma una
fisica, una medicina e una biologia tout court. La scienza, in altri termini, è
un potente strumento di superamento delle barriere politiche, linguistiche e
razziali. Si tratta di cultura cosmopolita per eccellenza: non a caso, essa ha
sempre avuto problemi con i regimi totalitari, di qualunque colore fossero. La
scienza è dunque tentativo costante di conoscere oggettivamente il mondo, e ciò
nulla ha a che fare con le differenze politiche, etniche o religiose.
Occorre tuttavia aggiungere ancora qualcosa a questo
proposito. Se ammettiamo che lo scopo ultimo della ricerca scientifica pura è
il raggiungimento della verità, non si può fare a meno di concludere che tale
scopo è in se stesso immune da obiezioni morali. Ma, naturalmente, noi sappiamo
anche che “tendere” alla verità non significa raggiungerla. Considerati i
limiti cognitivi dianzi menzionati e il fatto che il nostro apparato percettivo
ci consente di accedere a certi livelli della realtà ma non ad altri, il
perseguimento della verità è più una questione d’intenti che un obiettivo
concretamente determinabile.
Agli inizi del secolo scorso, il grande filosofo
pragmatista americano William James notava che essendo il “vero assoluto”
– nel senso di ciò che nessuna esperienza successiva potrà modificare –
l’ideale punto di fuga verso cui immaginiamo che debbano convergere un giorno
tutte le nostre verità provvisorie, dobbiamo vivere al presente, con ciò che
di vero abbiamo a disposizione oggi. E concludeva che l’astronomia tolemaica,
la geometria euclidea e la logica aristotelica sono stati strumenti adeguati per
secoli, ma l’esperienza umana ha oltrepassato quei limiti. Ora sappiamo che
quelle teorie sono solo relativamente vere, o vere entro i limiti di
quell’esperienza. Ma sappiamo anche che quei limiti erano casuali, e avrebbero
potuto essere superati dai nostri predecessori proprio come lo sono stati dai
pensatori attuali.
Quale etica per la scienza, dunque? La risposta a tale
quesito dipende dalle circostanze storiche in cui lo scienziato opera, e
dall’ambiente sociale in cui vive. I valori non sono dati né nel mondo
sensibile né in quello trascendente, ma sono creati dalle decisioni umane. E
allora è chiaro che, ancorando i valori stessi al flusso degli avvenimenti
storici, essi si rivelano per quello che effettivamente sono, e cioè assunzioni
di fondo che un individuo – o, meglio, un gruppo di individui – adotta in un
ben preciso e temporalmente determinato momento storico. I valori non se ne
stanno immobili in qualche sorta di platonico mondo delle Idee, e le teorie
concernenti sia l’etica, sia l’organizzazione politico-sociale – come del
resto quelle della scienza – vengono costruite proprio al fine di essere
sottoposte alla prova.
I valori, dunque, evolvono di conserva con il cammino
storico del genere umano. Non è vero, in altri termini, che vi siano valori
assolutamente inconciliabili, civiltà incapaci di comunicare, teorie
scientifiche incommensurabili tra loro. E’ una questione di misura: basta non
ipostatizzare il concetto di valore (o qualsiasi altro concetto) per comprendere
che, in fondo, resta sempre aperta la possibilità di compiere una scelta. Karl
R. Popper ci ha mostrato che la storia della scienza è, in fondo, una grande
cimitero di teorie: non si deve mai assolutizzare la conoscenza scientifica del
presente, poiché l’esperienza dimostra che anche anche quelle che noi oggi
giudichiamo le teorie scientifiche “migliori” sono, prima o poi, destinate
ad essere superate. In altre parole, nulla ci impedisce di pensare che la
relatività einsteiniana e la meccanica quantistica saranno giudicate, in un
futuro più o meno lontano, inadeguate, proprio come noi oggi giudichiamo
inadeguate le teorie precedenti.
Tuttavia, non esistono ragioni cogenti che ci impediscano
di estendere questo ragionamento anche ad altri terreni. Gli uomini di ogni
periodo storico tendono a vedere anche l’organizzazione etica (e quella
socio-politica) in cui vivono come finale e definitiva: si tratta della perenne
tendenza umana a giudicare definitivi i propri prodotti. Ma la storia ci insegna
che questo è illusione: ogni nostra costruzione è toccata dalla contingenza e
dallo scorrere del tempo.
La scienza non è dunque importante perché costituisce il
paradigma della conoscenza, ma perché ci fa capire che il mondo è – o
potrebbe essere – diverso da come noi lo vediamo, e perché ci fa comprendere
che la realtà potrebbe anche essere una, ma articolata su tanti e diversi
livelli, l’accesso ad ognuno dei quali implica l’adozione di un diverso
schema concettuale. La stessa immagine del mondo del senso comune, che è poi
quella che tutti condividiamo, si è evoluta ed ha subito profonde modificazioni
grazie al costante interscambio con l’immagine scientifica del mondo. Sarebbe
pura illusione pretendere che questo non sia avvenuto e non avvenga anche sul
piano etico.
Se guardiamo ancora una volta alla storia della scienza, si
può facilmente vedere che gli uomini del XXI secolo hanno una concezione del
sole assai diversa da quella in uso ai tempi di Aristotele, ed una visione del
cuore molto diversa da quella di Galeno. Essi non sapevano tantissime cose circa
il mondo che noi oggi sappiamo. I medici galenici, ad esempio, non potevano
nemmeno parlare di batteri e di virus perché tali entità si collocavano
interamente al di fuori del loro orizzonte concettuale.
Gli schemi concettuali che ci consentono di agire nella
vita di ogni giorno sono sempre legati ad una visione del mondo – una visione
di come stanno le cose nella realtà circostante. Lo sviluppo storico acquista
un ruolo fondamentale, giacché gli schemi concettuali sono chiaramente il
prodotto dell’evoluzione temporale, mentre la nostra concezione delle cose non
è mai assoluta, ma dinamica e fluida. Se consideriamo etica e scienza come due
schemi concettuali generalissimi, non possiamo fare a meno di legarli
all’evoluzione storica. I valori di uno schema possono non solo cadere in
disuso, ma anche presentare agli esseri umani situazioni – e dimensioni
dell’agire – del tutto nuove.
Si è spesso osservato che la pratica professionale della
ricerca scientifica sviluppa qualità che troverebbero ottime applicazioni anche
in altri campi. La prima di queste qualità è l’assenza dello spirito
d’autorità. E’un dato di fatto che sul fronte della ricerca occorre fare i
conti con la costante possibilità dell’errore, ed è a questo punto che il
perfezionamento delle tecniche per rilevare gli errori è, al contempo,
condizione e testimonianza del progresso. Ne consegue che l’assenza di
dogmatismo è caratteristica essenziale della ricerca scientifica, in quanto lo
studioso è libero di porre qualsiasi domanda e di correggere qualsiasi errore.
Tutte le volte in cui nel passato ci si è serviti della scienza per erigere
nuovi dogmi, essi si sono dimostrati incompatibili con il progresso scientifico.
Karl Popper ha affermato a tale proposito che esiste, tra
la ricerca scientifica e la prassi liberal-democratica, una sorta di armonia
prestabilita. La ricerca è tanto più prospera quanto più si sviluppa nel
clima di libertà che le è naturale, mentre lo spirito che anima la scienza
rafforza le strutture della società liberale. Al rifiuto di ogni dogmatismo, la
scienza moderna abbina la pratica costante della cooperazione e del lavoro
collettivo. Lo scienziato fa parte di una comunità e – almeno si suppone –
la sua vita quotidiana e la natura stessa del suo lavoro gli conferiscono una
certa forma di saggezza. Ne consegue che un aspetto importante del problema dei
rapporti tra lo studioso e la società è fare in modo che l’insieme
dell’umanità possa beneficiare dei valori propri degli ambienti scientifici.
Pare ragionevole affermare che il carattere non assoluto
della scienza ne determina anche i limiti. E, a sua volta, la presenza di tali
limiti fa sì che l’intellettuale-scienziato non possa risolvere, facendo
appello a criteri puramente interni, i dilemmi che impegnano tutti noi in scelte
di valore. Ciò non significa disconoscere il ruolo fondamentale che la scienza
svolge nella nostra attuale visione del mondo. Più semplicemente, equivale a
riconoscere il carattere specificamente umano di quel particolare tipo di
attività culturale rappresentato dalla ricerca scientifica.
Per quanto riguarda il processo di globalizzazione, si dice
spesso, oggi, che l’accordo sulla possibilità di una maggiore comprensione
reciproca tra gli stessi esseri umani è venuto meno. Ne avrebbe determinato la
fine il risorgere di odi a lungo repressi, odi che hanno la loro fonte nelle
differenze legate alle identità nazionali, etniche e religiose. Saremmo insomma
di fronte alla fine delle concezioni universalistiche che hanno permeato gli
ultimi secoli.
In realtà, se noi guardiamo alla storia, il declino delle
concezioni universalistiche non è specifico della nostra epoca. La
riaffermazione delle identità nazionali, etniche e religiose è un fenomeno
ricorrente, il quale si verifica ogni volta che qualche impero sovranazionale,
più o meno tirannico, crolla. Né appare lecito considerare la risorgenza delle
identità come segnale di un abbandono del cosmopolitismo. Fenomeni di questo
tipo sono già avvenuti, a ritmo ciclico, nel passato, e non dovrebbero indurci
ad essere pessimisti circa un rinnovato successo in futuro di ideali che puntino
ad unire piuttosto che a dividere, ad esaltare i fattori che ci accomunano in
quanto esseri umani piuttosto che a sottolineare gli elementi che ci separano
gli uni dagli altri.
La perdita di fiducia nel cosmopolitismo, l’attuale –
ma certo non definitivo – declino delle idee universalistiche, non sono
fenomeni la cui origine possa farsi risalire a circoli intellettuali. Essi
riflettono, piuttosto, la percezione diffusa che il futuro non possa essere
migliore. Non è così frequente, oggi, trovare qualcuno che creda veramente
nella possibilità di dar vita ad una società più giusta. E’ quindi la
perdita di fiducia in tutte le forme di utopia egualitaria a far sì che molti
guardino preoccupati al processo di globalizzazione. Si tratta di una
preoccupazione dettata da motivi pratici e concreti, piuttosto che da
teorizzazioni politico-filosofiche.
Il senso vero della globalizzazione è dato dal fatto che
la situazione economica dei cittadini di uno Stato nazionale sfugge ormai al
controllo delle leggi in quel particolare Stato. Prima le leggi nazionali
regolavano, anche a fini sociali, i movimenti di denaro all’interno dei
confini. Ora non è più così. L’assenza di un governo mondiale comporta che
gli interessi di tutti non possono essere tutelati. E’ interessante, allora,
chiedersi se degli intellettuali portatori di una “cultura globale” abbiano
un ruolo, e se sì quale, nel combattere una simile situazione.
Il ruolo dell’intellettuale è di grande portata.
L’intellettuale è un costruttore di teorie. Deve attirare l’attenzione
sulla necessità di una politica globale, in grado di contrastare i privilegi
delle oligarchie. Il problema, insomma, non è quello di combattere la società
globale, ma di dar vita ad una società globale giusta. Il termine
“globalizzazione” è stato negli ultimi anni caricato di significati
negativi, è diventato una sorta di feticcio che riassume in sé i mali del
mondo. Tutto questo è sintomo di grande confusione. Non necessariamente
globalizzare significa omogeneizzare a forza. Non necessariamente globalizzare
equivale ad eliminare differenze ed identità specifiche. Al contrario. Può
voler dire, invece, dar vita ad una società mondiale in cui il rispetto di
differenze ed entità diventi un fatto naturale.
Pur su scala minore, il processo di unità europea
rappresenta proprio un esempio di globalizzazione “virtuosa”. Chi può
seriamente sostenere, oggi, che dentro l’Unione vi sia scarso rispetto per le
identità nazionali italiana, olandese o polacca? Chi può seriamente sostenere
che l’Unione non rispetti le differenze tra spagnoli, tedeschi o irlandesi?
Nessuno, almeno se è in buona fede. Naturalmente tutti sappiamo che i problemi
si complicano quando dal contesto europeo passiamo a quello mondiale. Ma questo
non deve indurci ad abbandonare la speranza che, in un futuro di cui ora è
impossibile delineare i contorni, lo stesso possa accadere su scala planetaria.
Abbiamo veramente bisogno di rinunciare alla preservazione
delle identità e delle differenze se ci muoviamo nella direzione di una
politica e di una cultura globali? Molti ritengono di sì, e danno per scontato
che la globalizzazione comporti l’annullamento di ogni specificità. Non è
così. La protezione delle identità e delle differenze non ha bisogno di un
tipo di politica speciale se ci muoviamo nella direzione di una globalizzazione
intesa in senso corretto. In una società globale le identità vengono
preservate gelosamente perché arricchiscono il quadro complessivo.
Accettare la politica del maggior spazio possibile per la
variazione diventa più semplice quando si ammette che non vi è alcuna fonte di
autorità al di fuori del libero accordo tra gruppi. E il progetto di una
cultura globale non deve certamente essere abbandonato. E’ questo, credo, il
compito che gli intellettuali responsabili devono prefiggersi nell’immediato
futuro.
Ecco perché, oggi, è necessario “diffondere cultura”. Ne abbiamo bisogno perché c’è una domanda spontanea che proviene dal grande pubblico, e i mezzi di comunicazione di massa hanno spesso banalizzato la cultura. E’ importante far arrivare al pubblico una cultura raffinata di tipo forte, che possa contrastare questa banalizzazione. Le Fondazioni possono fornire un grande contributo ad allargare l’offerta in una città come Genova, dove la vita culturale è meno intensa rispetto ad altri contesti territoriali. La “Fondazione Paolo Michele Erede” nasce in stretto contatto con la Facoltà di Lettere e Filosofia. Ciò è significativo, poiché è necessaria una maggiore interazione tra Università, a volte corpo separato, e Città.
Prof. Michele Marsonet
“Ricordarci dell’esistenza altrui
cioè dell’uomo che pensa e che vive tra gli eventi che succedono intorno a sé
ed agli altri cioè la vita – l’esistere”.
Dott.ssa Franca Erede Dürst, Presidente